Il Foglio sportivo
“Scusa, qui è Ameri...”. Sessant'anni fa la prima rivoluzione a “Tutto il calcio...”
Era il 31 dicembre del 1961, seconda giornata di ritorno: il vantaggio della Roma a Milano contro l'Inter e quell’intrusione che cambiò per sempre la narrazione del calcio alla radio
Chiese scusa e niente fu più come prima. La radio gracchiò, in lontananza si sentiva l’eco di un gol. Ci fu un attimo eterno, custodiva una sfumata felicità in arrivo. Erano quelli tempi educati, per casa si girava con le pattine, quando in una stanza entrava una signora ci si alzava e se si interrompeva qualcuno ci si scusava in anticipo. Si qualificò: Ameri. “Scusa, è Ameri”. Con la voce che per l’emozione ballava il tip-tap sulle corde vocali annunciò che a Milano la Roma era passata in vantaggio, il minuto era il trentacinquesimo del secondo tempo, aveva segnato Pedro Manfredini. Succedeva esattamente sessanta anni fa, nell’ultimo giorno di un anno – il 1961 – che sarebbe stato ricordato per altri svariati motivi. Il giovane favoloso Bob Dylan debuttava al Gerde’s Folk City del Greenwich Village, Ernest Hemingway caricava un fucile, si sparava in testa e la finiva lì, il cosmonauta sovietico Jurij Alekseevič Gagarin – primo uomo nella storia – andava in orbita a bordo della Vostok-1 e da lassù esclamava che “la Terra è blu, che meraviglia”, Dino Risi e Rodolfo Sonego scrivevano il più bel film di quel decennio, “Una vita difficile”, mentre a Berlino tiravano su il Muro, dividendo la città in due. Era il 31 dicembre, seconda giornata di ritorno.
“Tutto il calcio minuto per minuto” era nato due anni prima, il 10 gennaio 1960 negli studi Rai di Milano. L’idea era stata di Guglielmo Moretti, che aveva avuto l'intuizione ascoltando una trasmissione di rugby francese. A sostenerlo nell’ideazione Roberto Bortoluzzi – poi Gran Mogol della trasmissione per 27 anni – e Sergio Zavoli. I tre colsero nella scansione degli eventi calcistici, la narrazione perfetta – ma nessuno per fortuna la chiamava ancora narrazione – dell’Italia del Boom che si affannava a rincorrere progresso e futuro, talvolta confondendoli. Enrico Ameri aveva trentacinque anni, era nato a Lucca da genitori genovesi, ma era cresciuto a Roma. Di secondo nome faceva Benito, così aveva voluto il padre ufficiale dell’esercito. A diciassette anni si era arruolato nella Repubblica di Salò. Sognava di fare l’attore, la famiglia l’aveva spinto a studiare Legge. Al primo tentativo di farsi assumere in Rai era stato bocciato.
Alla prima radiocronaca, la Mille Miglia, gli si era strozzata la voce in gola e per un paio di minuti aveva biascicato qualcosa di incomprensibile. Per punizione – per punizione! – l’avevano mandato a fare l’inviato di guerra tra Vietnam e Indocina. Ameri aveva una voce pulita come l’acqua di un ruscello di montagna. Era una voce seducente, che prendeva corpo nel ritmo. Nel suo racconto, ogni azione aveva la geometria ritmata di un’opera di Mozart. Nessuno sapeva far correre le frasi come Enrico Ameri, nessuno sapeva costruire strutture narrative semplici ed efficaci come le sue: era un bambino prodigio che risolve il cubo di Rubik in nove secondi netti. Rievocando la voce roca di Sandro Ciotti tornano alla memoria le frasi-mantra e gli slanci poetici – “la ventilazione inapprezzabile”, “il cielo di Firenze striato d’azzurro come da contratto”, “San Siro immersa nella nebbia come una ciliegia candita nella panna di una Saint Honoré” – quando si ripensa a Enrico Ameri, beh: “Panta Rei”, tutto scorre, in un fluire inarrestabile di parole che formano una colonna sonora che non ricordiamo, però bellissima e necessaria.
All’inizio “Tutto il calcio” funzionava così: un conduttore in studio, un campo centrale e altre tre partite, le più importanti della giornata di campionato. Scaletta rigidissima. Vigeva una sacralità d’altri tempi, vietate le interruzioni. Parlava un inviato, la linea tornava allo studio, il conduttore dava parola a un altro inviato. Era una giostra e ognuno doveva stare seduto al suo posto. Si celebrava un’idea rotonda di radio e di vita. Ma quando qualcuno segnava, era come avere un segreto e non poterlo dire. Quella domenica – 31 dicembre 1961 – Enrico Ameri era in collegamento da Milano, stadio San Siro, si giocava Inter-Roma. Era arrivato con un paio d’ore d'anticipo, la mattina – come tutte le domeniche – era stato a messa. A dieci minuti dalla fine Pedro Manfredini, il celebre “Piedone” realizzò il gol della vittoria giallorossa. Ameri avrebbe dovuto aspettare il suo turno, fu il dovere della cronaca a innescare la sua piccola grande rivoluzione. Si scusò, perché era pur sempre figlio di un ufficiale. “Scusa, è Ameri”. In collegamento c’era il campo di Catania, la squadra di casa stava sfidando il Milan. Ci fu un momento di smarrimento, l’effetto fu quello di un gessetto che urla un lamento sulla lavagna.
Ameri non ebbe timore e raccontò il gol di Piedone Manfredini. L’argentino dal piede gigante – ma anche no: calzava un banale 42 che però all'arrivo all’aeroporto di Ciampino era stato fotografato, ingigantito dal basso e sparato in prima pagina sui quotidiani sportivi – fino a quel momento era stato il peggiore in campo. Aveva ricevuto palla da Menichelli, ingannato il portiere Buffon con una finta e depositato infine il pallone in rete. Quell’intrusione cambiò per sempre la narrazione – a ridaje – del calcio alla radio. Quando restituì la linea allo studio, Enrico Ameri si sentì sollevato. La storia fu lui, nessuno si senta offeso.