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L'Inter vince nel modo più rocambolesco una Supercoppa collosa e cerebrale

Giuseppe Pastore

Il cinismo della Juventus di Allegri non basta. I nerazzurri, nonostante la consueta paura di perdere le partite di coppa, battono al primo minuto di recupero del secondo tempo supplementare i bianconeri

La Juventus s'impappina all'ultima pagina, scivola sul tappeto su cui è impresso il motto di famiglia – fino alla fine – che ha avuto un senso anche in questa stagione di bassa marea, come testimoniano le vittorie di corto muso contro Fiorentina (al 91'), Zenit (86'), Torino (86'). Perde in modo piuttosto crudele una Supercoppa che avrebbe meritato di traghettare ai rigori e ci stava anche riuscendo senza troppa fatica, anzi pure con una punta di rammarico per il poco che era riuscita a cavare dalle sostituzioni (in particolare da quello con la numero 10). Del resto è in queste partite, terreno d'elezione di Massimiliano Allegri, che si può intuire meglio il Grande Disegno del tecnico livornese, che ha ormai rinunciato a qualunque ambizione giovanile di imporre il proprio gioco (stanno diventando tutti teorici!, chioserebbe lui) per una visione del mondo pratica e scheletrica fino al cinismo, iper-tattica, speculativa, situazionista, prua dritta verso l'episodio, inseguendo l'utopia di sbagliare il meno possibile, preferibilmente mai, per castigare gli errori altrui sbucando da dietro le tende nel cli-Max finale. Anche nel look – un maglioncino simil-Marchionne al posto delle abituali giacca e cravatta più consone a una serata da trofeo – Allegri sembra assecondare questa transizione verso una specie di Atletico Madrid italiano, però senza un Griezmann, un Suarez e nemmeno un Diego Costa che terrorizzino i difensori avversari: soprattutto ieri sera, priva di sei titolari tra cui Chiesa e Cuadrado, la Juve non ha mai avuto la qualità per provare seriamente a battere la squadra più forte d'Italia. Si era già mentalmente settata sui rigori, progettando un cambio (Bonucci per chissà chi) a metà tra la superbia e l'eccesso di pokerismo, assecondando magari la volontà individuale di un giocatore che anche dal dischetto aveva costruito il proprio pezzo di leggenda nel 2021. E invece Alex Sandro...

Eppure stava bastando. È il campanellino d'allarme, difficilmente percettibile in mezzo agli strilli di gioia, che torna a tintinnare nella testa di Inzaghi, che già in campionato si era fatto progressivamente incartare e incantare da Allegri fino al torbido contatto Dumfries-Alex Sandro che però non era giunto affatto inaspettato.

 

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Ieri sera, copione simile: Inter dominante per un tempo, poi via via sempre più rattrappita e intimorita dalla prospettiva di perderla – un atteggiamento mentale tipico della partita secca che dopo due anni sarebbe anche il caso di cambiare, e forse è un vecchio retaggio della gestione-Conte (che ieri sera, con il Tottenham, è stato eliminato dall'ennesima coppa). Non aiutano i tipici cambi peggiorativi di un allenatore che preferisce sempre partire con i titolarissimi, e poi a un certo punto esce Lautaro ed entra Correa. Certo, potrete obiettare che l'Inter ha vinto la Supercoppa proprio grazie a uno di questi cambi, oltre che alla dabbenaggine di Alex Sandro; ma si tratta di una tendenza consolidata da mesi. Contro l'Atalanta, il Milan, il Napoli, la Juventus, il Real Madrid all'andata, persino contro la modesta Lazio di domenica scorsa l'Inter ha sempre finito col fiatone, rischiando che l'ultimo tremebondo quarto d'ora vanificasse un netto dominio fisico e tattico per tre quarti di gara. È la pagliuzza nell'occhio di una squadra che su suolo italiano non fa altro che vincere da dieci partite; che nelle sue mezze ore più ispirate può prendere per il bavero e sbatacchiare qualunque sua connazionale, dotata di un dinamismo al servizio della giusta causa, una propulsione in avanti collettiva il cui simbolo è il prodigioso Bastoni, presenza talmente costante nella metà campo avversaria da provare uno strano disagio nella blanda marcatura opposta a McKennie, agevolato anche da un errore di valutazione di De Vrij (il secondo in tre giorni). Viene in mente un vecchio personaggio di Antonio Albanese a Mai Dire Gol – chi era, il giardiniere Pierpiero? – che ironizzava sulla scarsissima propensione di Beppe Bergomi a superare la linea di metà campo: bene, Bastoni è l'opposto. Ci sono piccoli vuoti fisiologici, per esempio l'esausto Barella o il Calhanoglu sempre lampeggiante delle grandi serate, riempiti dal peso fisico e tecnico di un campione come Perisic o del galoppante Dumfries, in un continuo cambio di protagonisti in scena che è la vera novità dell'Inter di Inzaghi, molto più lontana dallo schema inesorabile ma monotematico di quella del Divo Antonio.

  

Non ha detto molto altro una finale incastrata nelle pieghe di un calendario che già ora, nel pieno della quarta ondata, pare impossibile e votato al non plus ultra. Non è mistero che sia Inter che Juve avrebbero fatto a meno di giocare questa partita proprio adesso, rimandandola semmai alle calende greche, ma la ragion di Stato imposta dalla Lega ha (giustamente) prevalso.

Si percepiva che ci tenesse un po' di più la Juventus e in particolare Allegri, nonostante tutto ancora un eccellente “garista” da grande classica di un giorno, e un po' meno Inzaghi, da metà ripresa in avanti preoccupato di non tirare troppo il collo ai suoi fedelissimi visto che domenica sera c'è da far visita all'Atalanta. Ha vinto la squadra più forte nel modo più rocambolesco e imprevedibile, quando ormai si riteneva che potesse bastare il solo gigantesco Chiellini a tenere incollata per altri trecento minuti l'improvvisata difesa composta da De Sciglio, Rugani, Alex Sandro e Perin. Il corpo a corpo in area di rigore con Skriniar, con i due avvinghiati e rotolati in fondo alla rete, è stata l'immagine simbolo di una finale collosa e cerebrale, interpretata dalla Juventus sempre meglio col passare dei minuti, ma dimenticandosi di chiudere la frase. E scordarsi una finestra aperta a mezzanotte, nel freddo polare dell'inverno milanese, si è rivelato fatale.

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