la partita più difficile
La tristezza di Josip Ilicic, in fondo, non è così tanto diversa dalla nostra
Anche gli atleti della ricca industria del pallone vivono dinamiche simili a quelle delle persone comuni ma siamo troppo accecati dal tifo per accorgercene
Josip Ilicic, geniale attaccante dell’Atalanta, è preda del suo male oscuro. Gli siamo vicini, con commozione sincera. Ma una tantum, come eccezione che conferma la regola del copione scritto da noi, in cui i calciatori devono avere comportamenti, gesti, rituali stereotipati. Damiano Tommasi, ex giocatore ed ex presidente dell’Assocalciatori, in una bella intervista di Stefano Lorenzetto, domenica sul Corriere, ha raccontato: “Un campione del Parma mi disse: noi giocatori non possiamo neanche essere tristi”. Succede che un grande giocatore come Josip Ilicic, che con il suo sinistro fatato ha contribuito in modo determinante (ricordiamo i quattro gol al Valencia negli ottavi di Champions League del 10 marzo 2020) alla consacrazione europea dell’Atalanta, si perda in quella che il suo allenatore Gian Piero Gasperini chiama “la giungla” che sta nella nostra testa. Lo trattiamo con garbo e rispetto, come se fosse un caso isolato e la sua fragilità non fosse quella di tanti calciatori e la stessa nostra.
Questa di Ilicic è un ricaduta, dopo quella del 2020, i pensieri diventati neri, appesantiti dai ricordi della guerra in Bosnia riemersi e amplificati da quella nuova guerra che è stata la pandemia, soprattutto la prima ondata, con il lockdown duro, le città deserte e quel tempo sospeso, senza fine, assediati dentro le nostre case, con il coprifuoco, la paura di uscire, di incrociare un nemico subdolo, bravissimo a mimetizzarsi, come un difensore che ti arriva in tackle da chissà dove. C’è chi ha scritto libri o inventato ricette e poi li ha pure monetizzati, raccontando di una convivenza garrula con il virus. C’è chi, invece, non riusciva a fare nulla, se non evitare di impazzire, come ha rivelato Gigi Buffon. Il portierone, nella sua autobiografia (2008), scrisse di aver sofferto di depressione, ma siccome non si era chiuso da qualche parte, la faccenda venne derubricata ad aneddoto.
Il “mola mia” bergamasco, grido di resistenza durante la pandemia, ora è per Ilicic. Facciamo il tifo per lui, ma anche per noi perché accettiamo i calciatori come sono e non come dovrebbero essere. Il calcio è un mestiere particolare ma il calciatore è un uomo/lavoratore come un altro. Con i problemi al lavoro: la concorrenza/convivenza con i vicini di scrivania/ufficio/zolla, i rapporti buoni/cattivi con il capoufficio/allenatore; i problemi in casa con mogli, fidanzate, figli, madri e padri che ai suoi sommano i loro. C’è chi lascia la sua azienda andando a guadagnare meglio, cambiando città e addirittura nazione, convinto di fare un balzo in avanti e si ritrova più ricco ma anche più scontento perché la sua esistenza, sotto molti aspetti, non è migliorata per niente. E rimpiange il vecchio lavoro, il vecchio ambiente, la vecchia città. Vi frulla qualcosa? Ogni riferimento a Romelu Lukaku non è per niente casuale. Solo che un calciatore deve tenerselo per sé, altrimenti si arrabbiano quelli di prima (i tifosi dell’Inter), quelli di adesso (i tifosi del Chelsea) e quelli che pensano che “soldi uguale felicità”. Può essere, ma anche no. Poi c’è un professionista a cui viene offerto un posto di lavoro dove c’è meno stress/competizione e più guadagno. Se accetta è un mercenario che l’ha fatto per la grana e ci si domanda come si comporterà negli ultimi mesi di contratto con la vecchia ditta. Ma in un’azienda qualsiasi, Lorenzo Insigne sarebbe circondato dagli stessi dubbi?
Se Josip Ilicic invece di macerarsi per un male oscuro si macerasse, come il giovane attaccante della Fiorentina Dusan Vlahovic, perché vuole una squadra più prestigiosa e un conto in banca rimpinguato, la commozione sparirebbe. Molti si sono trovati, in casa, un figlio che tifa per una squadra diversa dalla propria, magari proprio quella di fronte, della stessa città. Ma se si tratta dello juventino Leonardo Bonucci e del suo bambino perso per Andrea Belotti e per il Toro, apriti social. Giudichiamo i calciatori distanti, viziati, irraggiungibili. Anche fosse, nel loro mondo tristezze e allegrie, alla fine, sono uguali alle nostre.