Milan-Juventus è stato il simbolo di una Serie A che si trascina sui gomiti
Per negare all'Inter il ventesimo scudetto ai rossoneri rimane l'estremo appiglio del derby “in trasferta” a cui arriva largamente sfavorito
“You're gonna need a bigger boat!”, ci serve una barca più grossa, bofonchiava Roy Scheider nel celebre thrillerone estivo di Steven Spielberg, pochi secondi dopo che gli si era palesato davanti, in tutta la sua ferocia, lo Squalo. Per sgominare il pescecane bianconero, un po' avvizzito e sdentato ma pur sempre squalesco, specialmente se avvistato da lontano, al Milan è mancato lo sforzo (anche economico, col senno di poi) di avere pronto un grosso calibro come fa abitualmente l'Inter quando si trova in difficoltà. L'autoreferenziale Ibra si è chiamato fuori quasi subito, annoiato da vecchi e fisiologici fastidi al tendine. Il sostituto Giroud ha speso i suoi 62 minuti di gioco nella vana ricerca di uno spiraglio di luce, anche artificiale, che desse un senso al suo non entusiasmante status di ariete a fine carriera, trovandolo solo una volta (colpo di testa in bocca a Szczesny). Si sperava in Rebic, sempre velenoso contro la Juventus, ma ha sbagliato tutti i palloni che ha giocato. Quanto a Leao, il miglior giocatore della Serie A di gennaio, è stato anestetizzato dalla proverbiale attenzione difensiva di Allegri, che non gli ha mai lasciato l'uno contro uno facile contro De Sciglio. Così Milan-Juventus è scivolata lenta e inesorabile verso il solito copione tardo-allegriano che abbiamo imparato ad apprezzare (più o meno) nelle altre due partite giocate quest'anno a San Siro contro l'Inter. La rinuncia studiata a qualsiasi slancio offensivo per tenere la partita in bilico fino alla fine, e poi vediamo: l'occasione è capitata sulla testa di McKennie all'85' e non escludiamo che fosse già tutto previsto, ma l'opposizione decisiva di Kalulu ha evitato al Milan una beffa ingenerosa. Da questo punto di vista cambiare al 90' Dybala con Kulusevski, riservandogli tre minuti più inutili di quelli di Rivera a Città del Messico, è sembrato quasi un alto tentativo di trollaggio dal momento che meno di due anni fa Kulusevski è costato alla Juventus 44 milioni e rappresenta uno dei più efferati bagni di sangue degli ultimi anni di Paratici. Al di là delle ampie riserve morali condivise da tutti gli juventini più sognatori (ne esistono), lo 0-0 senza mai sporcare i guanti di Maignan – alla Juve non capitava dal 2011 di concludere una partita contro il Milan senza mai tirare in porta – è stato accolto da Allegri, paradosso dei paradossi, con un sorrisone di faticosa comprensione, dal momento che dopo 23 giornate la Juve è pur sempre distante sette punti senza più scontri diretti: quale sia il piano a lungo termine della Juve nessuno lo sa, o forse il piano è proprio questo.
Il Milan non sa bene se leccarsi le ferite o rallegrarsi perché la volata Champions “è sempre stata il nostro unico obiettivo”, come probabilmente si dichiarerà ad aprile approfittando della classica cattiva memoria di questo mondo. Per due volte Pioli se l'è presa col campaccio di San Siro, un tema che a inizio dicembre sembrava un alibi e adesso è diventato un comodo paravento, sia pure con un buon fondo di verità. Un'altra verità, più amara delle altre, è che quando la squadra gira a vuoto Pioli non riesce a variare granché lo spartito, anche perché la migliore arma tattica dell'andata (il Rebic “falso nueve” eccellente nelle trasferte contro Juve e Atalanta) è rientrata solo ora da un lungo stop. Per negare all'Inter il ventesimo scudetto gli rimane l'estremo appiglio del derby “in trasferta” a cui arriva largamente sfavorito, il che sarà senza dubbio un bene. Va meno bene che a febbraio 2022 il Milan debba ancora sgranare il rosario e augurarsi che a Ibrahimovic non venga un colpo di freddo, perché per una squadra con ambizioni di grandezza contare su un centravanti di 40 anni dalla mobilità rivedibile dev'essere un'eccezione e non la normalità, e invece il Divo Zlatan è partito titolare in nove delle ultime dodici partite di campionato. Porvi rimedio è una pia illusione nel mercato invernale più triste di sempre, con le tre grandi che al 24 gennaio hanno completato zero acquisti in tre. Non c'è un centesimo, ma molti giornali e tv continuano a rimestare in un pentolone vuoto con una caparbietà che sfiora la circonvenzione d'incapace.
Anche questa è una delle tante spie rosse accese sul cruscotto di un campionato che da qualche turno si sta trascinando sui gomiti, appesantito dal calendario ingolfato e da norme balzane come quella sul limite a 5 mila spettatori, passata inosservata nei campi minori di Venezia o La Spezia dove i presenti erano tutti allegramente ammassati, invece evidente in tutta la sua assurdità nel deserto di un Milan-Juventus assai deprimente anche per la mesta cornice. Se ormai abbiamo iniziato a convivere con gli infortuni o gli stop per Covid, attenzione a non sottovalutare anche il disagio psicologico che se ne frega dei soldi e degli stipendi: la punta dell'iceberg è il malessere di Ilicic, pubblicamente rivelato da Gasperini alla fine di Lazio-Atalanta con parole che meriterebbero una riflessione. Da un lato un sincero interesse a recuperare la persona, dall'altro l'ammissione di incapacità e impotenza di fronte a un problema così intricato (“la testa è una giungla”). In un momento in cui tutto lo sport di alto livello, dal tennis all'atletica leggera, si sta rivolgendo ai mental coach, il calcio ha il dovere di trattare questo tema con la stessa serietà con cui si pianifica una preparazione atletica.
I giocatori hanno bisogno di respirare, dicevamo. Ma in molti non lo faranno, come i sudamericani che attraverseranno l'Atlantico per le rispettive Nazionali o gli italiani che assaggeranno per qualche giorno a Coverciano un anticipo dello psicodramma in cui ci immergeremo tutti insieme a fine marzo, quando lo stress e il veleno saranno somministrati in dosi ancora più acute delle attuali. Sono loro, siamo noi, i forzati del pallone.