Il foglio sportivo
C'è un Inter-Milan anche fuori dal campo
Perché tra nerazzurri e rossoneri lo scontro è anche tra due filosofie di mercato. Giocatori in scadenza e altre sfide da raccontare
Ecco a voi un argomento scivolosissimo: perché i numeri sono inattaccabili, tant’è che spesso vengono sguainati e agitati come la katana di Hattori Hanzo per frastornare il pubblico. Ma le sensazioni sono immateriali, impalpabili e per fermarle su carta servono i riflessi di un fotoreporter di guerra. E però sembra proprio questo: che da anni il Milan arrivi al derby per nulla sereno. Proprio nella stagione in cui sono finalmente usciti indenni dall’incrocio con la Juventus sia all’andata che al ritorno (non capitava dal 2009-2010), i rossoneri si presentano all’appuntamento con l’Inter con un cerchio alla testa che si propaga nelle viscere, con l’inutile pausa Nazionale che ha ispessito ulteriormente la tensione.
I numeri sono schiaccianti. Una sola vittoria negli ultimi undici derby di campionato, il 2-1 del settembre 2020, con uno straordinario Ibrahimovic a indirizzare la partita nei primi venti minuti: di fronte allo sfacelo della fase difensiva, Conte prese atto di una squadra troppo scoperta e trovò le contromisure nel giro di due mesi. Si è trattato di derby spesso episodici, risolti da una giocata o un errore a tempo scaduto, ma il senso di rassegnazione che si respira da quindici giorni nella parte rossonera della città prescinde dal campo. Una prima spiegazione molto banale sta nel fatto che in Italia il calcio è un gioco senza memoria e quindi chi vince ha ragione, chi perde rosica e non c’è margine per stati d’animo intermedi: a intossicare la colazione dei milanisti è sufficiente il miraggio sempre più concreto della Seconda Stella Interista. Una seconda spiegazione, diretta conseguenza della prima, sta nella strategia finalizzata al “qui e ora” condotta da Marotta nonostante le peripezie societarie: un acquisto come quello del malconcio Caicedo ha senso solamente in una prospettiva entro i tre mesi e così Maldini e Massara, stressati dal concetto di squadra sostenibile e futuribile, non ci hanno nemmeno provato, preferendo dirottare i (pochi) fondi sull’infante Marko Lazetic.
Così il milanista si amareggia: ricorda l’inverno dell’ultimo scudetto in cui Galliani puntellava la rosa ghermendo subito Cassano e Van Bommel e riconosce quel modus operandi in Marotta, che del resto dello Squalo è fedele discepolo. Oppure prendiamo la situazione dei giocatori in scadenza, già ora liberi di andare dove vogliono: in campo ne scenderanno almeno cinque. Prendiamo due giocatori da top 11 stagionale come Perisic e Brozovic: l’uscita di scena del primo è quasi certa (tanto che Marotta si è cautelato prendendo Gosens), il rinnovo del secondo si è fatto nebuloso per un inserimento del Barcellona. Ma la supremazia cittadina rende la loro dipartita molto più sopportabile all’interista di quanto lo sia quella dell’altalenante Kessié per i milanisti, scornati e scottati un anno fa dai divorzi economicamente traumatici con Donnarumma e Calhanoglu. Si stanno slabbrando finanche le fasce di capitano al braccio di Handanovic e Romagnoli: il milanista va a scadenza il 30 giugno ed è altamente probabile che abbia già sistemato il trolley accanto alla porta (come del resto De Vrij), l’interista ad agosto è già certo di finire in panchina per fare spazio a Onana. Per non parlare del Fantasma dell’Opera Ibrahimovic, il cui abituale trascinìo di catene è pronto a infestare le prime pagine di giornali senza fantasia. È sempre più marcato questo lato deteriore del tifo in cui il supporter diventa ultrà persino dei bilanci, specialmente sui social dove le opposte fazioni si scatenano in assurdi dibattiti sulle opposte virtù economiche. Sono baruffe che non trovano cittadinanza nel mondo reale a meno che non insegniate alla Bocconi, ma sono una piccola dose quotidiana di stricnina nel cappuccino, l’avvelenarsi non solo per i risultati del campo ma anche perché l’Inter “rinnova meglio i contratti”.
Ma questa sudditanza ha anche una terza ragione, più sottile e psicologica. Nel 1986, pochi mesi dopo aver acquistato il Diavolo, il neo-presidente Berlusconi commissionò un’indagine di mercato volta a tracciare il profilo del milanista medio. Risultati sconcertanti: i punti di riferimento culturali dei casciavìt erano simpatici perdenti, bonaccioni e pantofolai come Renato Pozzetto, Gigi e Andrea, al massimo Dustin Hoffman. “Ciò che definisce l’immagine del Milan”, era la conclusione, “è il rapporto purtroppo perdente tra la grandezza del suo mito e la modestia dell’attuale realtà”. Ci vollero tutti i soldi e la megalomania del Cavaliere per invertire pesantemente l’immaginario collettivo e poi, di conseguenza, il corso della storia.
Ora, nemmeno il milanista più ottusamente ottimista può aspettarsi uno sforzo biscionesco da una proprietà che ha l’obiettivo di ripulire il bilancio, valorizzare gli asset e rivendere il club: s’è visto com’è andata a finire la vicenda Vlahovic, e non si sta allenando a Milanello. Una cosa però sopravvive più ostinata dei punti di distacco, dei derby persi e dei colpi di sfiga stile Milan-Spezia, con la processione dei milanisti presso lo spogliatoio dell’arbitro Serra che sembra davvero una gag alla Pozzetto. È il fulmine a ciel sereno che regolarmente si abbatte su un campo di pallone, non sappiamo dove non sappiamo quando, e cambia il panorama. Riguarda tutto ciò che non stiamo considerando, ma che proprio per questo risulta decisivo per sovvertire un pronostico. Tra infortuni, balbettii tecnico-tattici e un mercato inesistente, Pioli, Maldini, Massara e Gazidis non hanno voluto aiutarsi con tutti i mezzi razionali di cui disponevano. Se l’Inter vede il derby numero 230 come un rettilineo in cui staccare definitivamente la concorrenza, per il Milan dagli pneumatici consumati somiglia più al Tornante di Loews, la leggendaria curva a 180 gradi del circuito di Monte Carlo: per imboccarla come si deve e recuperare decimi insperati occorrerà essere molto pazzi o molto lucidi. O entrambe le cose.