Foto EPA/Peter Foley, via Ansa 

Malessere a New York. Cosa sta accadendo ai Brooklyn Nets?

Andrea Lamperti

I Nets sono ancora i favoriti per l'Anello, ma i malumori interni rischiano di affossare ancora una volta i sogni di titolo da parte della franchigia newyorkese. Avere in organico tre tra i giocatori più forti della Nba a volte non basta per vincere

“Win now”. Dal primo giorno in cui i Nets si sono trasferiti a Brooklyn, la loro storia ha sempre avuto a che fare con questo imperativo, e con le sue conseguenze. Il primo grande assalto all’anello, sotto l’egida di Prokhorov, risale al 2013 e fu un fallimento doloroso, frutto del più clamoroso caso di foga e malagestione di una franchigia che l’Nba ricordi. Il secondo, invece, è ancora in attesa di giudizio, con una sliding door all’orizzonte per James Harden, Kyrie Irving e Kevin Durant. Il trio, sulla carta, più scintillante della lega.

 

IL PRIMO ALL-IN DEI NETS

Quando l’oligarca russo Mikhail Prokhorov divenne proprietario dei New Jersey Nets, 12 anni fa, era uno degli scapoli più ricchi del mondo, e fece una curiosa promessa: “Title or marriage”, si sarebbe sposato se i Nets non fossero riusciti a vincere nel giro di cinque stagioni. Dopo l’insediamento nella Big Apple, mise a disposizione del progetto una quantità sostanzialmente illimitata di dollari, al disperato inseguimento del successo immediato. La sua fretta, però, portò ad alcune scellerate decisioni di mercato, tra cui quello passato alla storia come “il peggior scambio di sempre”, con Boston.

Le ambizioni di quella squadra furono costruite intorno a un nucleo di stelle ormai sulla via del tramonto: Paul Pierce, Kevin Garnett, Deron Williams e Joe Johnson. Il conto, salatissimo: quasi 200 milioni di dollari tra stipendi e luxury tax, una cifra insensata ai tempi, con il salary cap che era circa la metà (58 milioni di dollari) di quello attuale (113 milioni). Il danno arrecato al futuro dei Nets, però, era ancora più ingente. Per ottenere questi grandi nomi era stato necessario il sacrificio di ogni asset di valore in ottica futura, tra giocatori e scelte al Draft. E non è un caso che Brooklyn dal 2015 al 2018 abbia guardato l’NBA dal fondo. È un destino a cui si sono auto-condannati.

Lontani anni luce dall’aprire un ciclo vincente, quei Nets si sono sgretolati nel giro di qualche mese. Prokhorov, in ogni caso, non ha messo al dito alcun anello: né quello tradizionalmente riservato ai campioni Nba, né quello nuziale. E ha ritirato la promessa nel 2015, dopo il naufragio del suo progetto.

 

IL SECONDO ALL-IN

Nell’estate 2019, espiati i peccati dell’era-Prokhorov, si creano i presupposti per il secondo grande tentativo. L’appeal della Grande Mela regala ai Nets due dei migliori free agent disponibili: Kyrie Irving e Kevin Durant. Sembra esserci finalmente luce in fondo al tunnel, e che luce.

Se la prima annata è di transizione, con Durant ai box per la precedente rottura del tendine d’Achille, è al suo ritorno che quella luce sia accende e illumina il Barclays Center. Brooklyn ritrova un giocatore, a 32 anni, incredibilmente integro. E con KD in tali condizioni, i Nets sono indubbiamente una pretendente al titolo. È a questo punto che la dirigenza si convince che, di fronte alla giusta occasione di mercato, sia il momento per un altro all-in. E la grande occasione arriva presto, si chiama James Harden.

È un all-in diverso, molto, da quello del 2013. Perché arriva all’interno di una “championship window” e perché crea a Brooklyn un trio di stelle vicine all’apice della propria carriera, con un supporting cast di discreto valore. Le prime partite confermano le sensazioni iniziali: battere quattro volte una squadra con un simile talento offensivo appare proibitivo per chiunque.

Martoriati dagli infortuni, però, i Big Three arrivano ai Playoffs avendo condiviso il campo in sole 8 partite. E il copione si ripete anche in post-season: Harden e Irving hanno problemi fisici, e il solo Durant – nonostante la serie “for the ages” contro i Bucks – non può bastare (giusto per qualche centimetro, a dire il vero). La prima opportunità di vincere un anello è sfumata, dunque. Ma sono problemi di infermeria, non di campo. Passeranno.

Sette mesi (e mezza Regular Season) dopo, Brooklyn ha ancora il favore dei pronostici per il titolo – Las Vegas conferma – e sembra tuttora la miglior squadra dell’Nba, quando i Big Three sono in campo. Si tratta ancora, però, di un evento molto raro. Dalla sua formazione, il trio ha giocato al completo 20 partite, il 16 per cento del totale. E tali rimarranno, più o meno, fino ai Playoffs, con Durant fuori fino a marzo inoltrato per un problema al ginocchio; ma gli infortuni, a dire il vero, c’entrano solo in parte questa volta. L’ostacolo più ingombrante è lo status vaccinale di Irving, che non gli consente - secondo le norme municipali di New York - di prendere parte ad attività al chiuso, incluse le partite casalinghe. Dunque, un suo utilizzo “part-time” (solo in trasferta) è l’unica soluzione percorribile. A cui i Nets si sono rassegnati soltanto un mese fa, dopo averlo lasciato a lungo fuori squadra. Una situazione costantemente poco “confortevole”, insomma, all’interno dell’organizzazione, che ha generato in James Harden una crescente frustrazione. “Ha scherzato più volte sul vaccinare Irving lui stesso, ma ad un certo punto mi chiedo quanto possa essere frustrante arrivare in un Big 3… che si rivela un Big 2.5” (Michael Scotto, HoopsHype).

Secondo quanto riportato da Shams Charania (The Athletic), tutto ciò ha contribuito ad alimentare delle tensioni interne tra Harden, staff tecnico e alcuni compagni di squadra, e soprattutto potrebbe aver aperto a clamorosi scenari di mercato. Sembra, infatti, che per la dirigenza dei Nets l’ex Houston non sia più automaticamente escluso dal tavolo delle trattative, e l’ipotesi più gettonata in tal senso sarebbe uno scambio per spedirlo a Philadelphia, con Ben Simmons a fare il percorso inverso.

Insomma, lo sgretolamento dei Big Three potrebbe essere imminente, oppure semplicemente rimandato alla prossima estate, quando Harden sarà padrone del proprio destino. Dopo aver rifiutato a ottobre l’estensione salariale offerta da Brooklyn, infatti, The Beard potrebbe declinare anche la player option prevista dal suo contratto, diventare free agent e scegliere liberamente la sua prossima destinazione. A meno che, nel frattempo, la vittoria di un titolo non spazzi via tutte le nubi che oggi aleggiano sopra le rive dell’Hudson. Ed è così che quel “Title or marriage”, nove anni dopo, sembra essersi trasformato in “Title or divorce”.

 

Andrea Lamperti è fondatore e direttore di aroundthegame.com 

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