Il Foglio sportivo
Los Angeles gioca a football
Non solo basket e baseball: dopo ventinove anni torna il Super Bowl
Tutta colpa di Andy Garcia e delle sue passeggiate a bordo parquet alle partite dei Los Angeles Lakers. Ok, è un’esagerazione. Perché prima di Garcia c’erano Jack Nicholson e Lou Adler: ma loro, partiti dalle file più lontane dal campo e avvicinatisi man mano che il loro potere economico cresceva, le vasche per farsi vedere, a partita iniziata, non le hanno mai fatte. Nascono così le reputazioni, e non si fermano più. Los Angeles? Città di vanesi, di ritardatari, di esibizionisti, di assenteisti, perché poi magari mancano 2’ alla fine di un Lakers-Celtics col punteggio in equilibrio e molti se ne vanno. Più importante sconfiggere il traffico che gli avversari.
Il Super Bowl a Los Angeles, per la prima volta dal 1993, è il risultato di una serie di elementi che comprendono anche la presunta apatia dei tifosi, spesso caricaturizzata e utilizzata come arma tattica per giustificare come mai per 21 anni, dal 1995 al 2016, nella seconda città americana per dimensioni e per mercato televisivo e pubblicitario non ci sia stata neanche una squadra della Nfl, cioè della lega di gran lunga più popolare. I Rams si erano spostati a St.Louis nel 1995, e i Raiders, arrivati da Oakland nel 1982, ci erano tornati nello stesso anno. Los Angeles Coliseum vuoto, Rose Bowl di Pasadena vuoto, Anaheim Stadium vuoto. O meglio, vuoti la domenica: pieni (i primi due) il sabato, per le partite di college football di Usc (Southern California) e Ucla, occupato per 81 partite l’anno il terzo, dagli Angels di baseball. Quando le due squadre pro se ne andarono, come scrisse un giornalista locale, “a Los Angeles gli abitanti hanno sbadigliato poi sono andati a fare surf”.
Bene così: non era disinteresse per il football, come del resto dimostrato dai pienoni per il college, ma verso la presenza di una squadra pro o due. Gli indici di ascolto sono sempre stati altissimi e l’assenza di un club permetteva agli appassionati locali di scegliere quale partita vedere in tv, dato che cadevano i vincoli legati alla territorialità. Ci sta, visto che L.A. ha una vasta percentuale di abitanti provenienti da altrove: nel 2019, solo il 51,5 per cento dei residenti risultava nato in California il 66 per cento negli Stati Uniti. I losangeleni per migrazione interna preferivano in genere seguire la squadra della propria città di origine e figuriamoci quelli arrivati da altre nazioni, forse al football neanche interessati se non come strumento, forzato, di integrazione. Los Angeles era diventata una specie di arma di ricatto: ogni club bisognoso di uno stadio nuovo nella propria città, o di termini migliori di affitto, minacciava di trasferirvisi, salvo restare dov’era una volta che la messa alle strette funzionava. Qualche anno fa, però, Stan Kroenke, proprietario dei Rams alloggiati a St.Louis, decise di tornare: non per affetto verso la città, con la quale non aveva legami, ma per i motivi che muovono tutte le decisioni di squadre professionistiche: soldi, preferibilmente legati al settore immobiliare.
Individuata un’area di 24 ettari a Inglewood, accanto al Fabulous Forum teatro delle gesta dei grandi Lakers di Magic Johnson, Kroenke è riuscito a far approvare un gigantesco progetto da quasi quattro miliardi di dollari per la costruzione dello stadio che ora ospita il Super Bowl, il SoFi Stadium, e di un complesso comprendente la solita litania di uffici, hotel, teatro, residenze di lusso, parco, laghetto, piste ciclabili. A giocarci, dal 2020 – a porte chiuse, però, causa pandemia – i Rams ma anche gli ex San Diego Chargers, che in realtà erano nati proprio a Los Angeles nel 1960. E anche la Nfl ha trasferito nel nuovo complesso, non ancora terminato, la propria sede distaccata e soprattutto studi e uffici di Nfl Network. Però l’innesto non è stato assorbito in pieno: ancora due domeniche fa, per la semifinale tra Rams e San Francisco 49ers, il SoFi Stadium aveva vastissime macchie rosso-oro, i colori della squadra ospite, e nell’imminenza della gara la moglie di uno dei giocatori si era offerta di acquistare biglietti da ‘tifosi’ dei Rams poco interessati alla partita, pur di impedire che finissero agli avversari. Il quotidiano di San Francisco aveva pubblicato foto di banchetti promozionali dei Rams pressoché disertati dal pubblico e si era ricreato quel clima di scetticismo per il reale interesse locale verso lo sport professionistico, o meglio verso un club specifico.
Con una storia particolare, oltretutto: i Rams sono infatti nati a Cleveland nel 1936 ed erano arrivati in California nel 1946, appena vinto il titolo Nfl, perché nel dopoguerra il boom di popolazione era parso più accattivante delle prospettive in Ohio. Per poter esercitare la propria attività in California avevano però dovuto sconfessare la tacita politica Nfl di non mettere sotto contratto giocatori afroamericani e avevano scelto Kenny Washington, definito poi da Martin Luther King “un mito e un simbolo dei suoi tempi”. Stabilito nel 1952 un record di pubblico battuto solo 60 anni dopo dai Dallas Cowboys, i Rams non avevano però avuto fortuna costante, e nel 1980, pochi mesi dopo un Super Bowl perso a Pasadena, avevano lasciato il Coliseum, lo stadio olimpico del 1932 e 1984, per andare in periferia, ad Anaheim, ora Angel Stadium per via della squadra di baseball. Nel 1972 erano stati al centro di un curioso affare: Robert Irsay, un imprenditore di Chicago, li aveva acquistati e subito… ceduti a Carroll Rosenbloom in cambio dei Baltimore Colts, un po’ come se Rocco Commisso avesse ceduto alla famiglia Agnelli la Fiorentina e non Vlahovic, ricevendone la Juventus.
Per paradosso, i Rams erano stati vittime della propria fortuna: visto il successo del loro trasferimento a ovest, nel 1946, presto arrivarono da New York i Brooklyn Dodgers di baseball e da Minneapolis i Lakers, conquistando poco alla volta fette di interesse, denaro e investimenti. Walter O’Malley, proprietario dei Dodgers, aveva fatto il colpaccio: promettendo di costruire lo stadio a proprie spese aveva ottenuto in cambio lo spettacolare pianoro appena a nord del centro, dal quale tuttora si gode uno spettacolare panorama dei grattacieli, e anche per questa posizione privilegiata i Dodgers hanno sempre cambiato mano a prezzi altissimi. E sono da anni la squadra Mlb con la più alta media di pubblico, quasi a smentire il tronfio “ora tornare pure a vedere il baseball” scritto da Zlatan Ibrahimovic al suo addio ai Galaxy, nell’autunno del 2019: non c’era bisogno di ‘tornare’, al baseball già ci andavano in tantissimi. I Dodgers, tra l’altro, nel 2020 hanno vinto il campionato, dopo 32 anni di astinenza e prese in giro per via degli stipendi più alti di tutto il baseball senza che ne arrivasse un risultato concreto. Los Angeles, a volte si dice, è città dei Dodgers e dei Lakers, dei Bruins di UCLA e dei Trojans di USC e di nessun altro.
I Clippers, che fino al 1999 hanno giocato nella Sports Arena circondata da un mare di disagio, sono tuttora considerati i parvenue, e le loro sconfitte accolte non con indifferenza, come accade per quelle degli Angels, ma con soddisfazione. I loro tifosi sono tuttora considerati meno sofisticati di quelli dei Lakers, persino di quelli della suburra che stanno nei posti più in alto dove la tv non li inquadra mai, e si ricorda ancora con imbarazzo la volta in cui Chris Paul e Blake Griffin, il binomio soprannominato Lob City per la sua spettacolarità, furono accolti con disapprovazione al Dodger Stadium, dove erano stati invitati a lanciare la prima pallina.