Pechino 2022

Da Magni a Goggia, quando i campioni superano gli infortuni anticipando la medicina

La sciatrice dopo aver conquistato l'argento ai Giochi olimpici invernali ha ringraziato i medici per le cure. Il suo recupero è stato sorprendente, l'ultimo di una lunga serie di "miracoli sportivi"

Giovanni Battistuzzi

L’ottimismo di solito non è affar per medici. Non perché siano pessimisti di natura, semplicemente perché non basano il loro giudizio su convenzioni astratte, bensì su evidenze fisiche e scientifiche. O almeno così dovrebbe essere. “Fosse per i medici non sarei stato nemmeno in pista. E invece in pista ci sono sceso”, disse nel 2013 Jorge Lorenzo dopo aver concluso al quinto posto la gara di Assen. Si era fratturato la clavicola dopo una caduta nelle libere del giovedì, era stato operato nella notte, sabato tirava la manetta della sua moto. Il dottor Costa commentò che “certe cose le fanno solo i motociclisti”. Almeno a parole, perché l’espressione invece diceva altro: “Questo è pazzo, gli ho detto che non era il caso, lui non ha voluto darmi retta”.

Sofia Goggia è stata meno veloce a rimettersi gli sci ai piedi. Con un ginocchio in quelle condizioni non avrebbe potuto fare più in fretta. E così ha ascoltato i medici. “I dottori mi hanno detto: Sofia se fai tutto giusto, se ci credi davvero, puoi farcela. E io ringrazio innanzitutto loro perché si sono presi una responsabilità enorme di farmi correre nelle condizioni in cui sono adesso”.

Una responsabilità ben ragionata. Era stato proprio il medico della Fisi, Andrea Panzeri, a dire il 10 febbraio “non vogliamo sottoporla a nessun rischio. Se siamo qui a questo punto è perché può provarci”. C'ha provato ed è riuscita a conquistare un argento olimpico che sa di impresa.

Panzeri ne sa qualcosa di ginocchia messe male. Per questo ciò che sembrava miracoloso ai più, ossia vedere Sofia Goggia al cancelletto di partenza alle Olimpiadi, era per lui difficile ma non impossibile. Non era ottimista, si era basato semplicemente sulla realtà, ossia sulla capacità di alcuni atleti di recuperare dagli infortuni più velocemente del consueto e dell’ordinario. E non solo rispetto a donne e uomini non di sport, ma anche rispetto ad altri sportivi.

L’ex medico del Giro d’Italia nel dopoguerra, il professor Pioli, disse più volte di essere rimasto sbalordito per la capacità dei corridori di resistere “ad atroci dolori” pur di andare avanti. Si riferiva a tanti, soprattutto a Fiorenzo Magni. Era il Giro d'Italia del 1956, il toscano era caduto, si era rialzato subito, si era rimesso in bici a inseguire nonostante una clavicola rotta. “I medici mi consigliano il ritiro, ma io non ne voglio sapere perché è il mio ultimo giro. Prendo un po' di novocaina e via. Va abbastanza bene fino alla cronoscalata Bologna-San Luca, in salita. Non potendo far leva sul manubrio, il mio meccanico, Faliero Masio, prende una camera d'aria e ne fissa una estremità al manubrio. L'altra estremità la stringo tra i denti. Così riesco a far forza e a correre…”, racconterà Magni. Quel Giro d’Italia, quello della tormenta di neve sul Bondone, lo terminò al secondo posto a tre minuti e ventisette secondi da Charly Gaul, nonostante tutto.

 

La volontà e la capacità di sopportare il dolore è ciò che ha permesso a Franco Baresi di scendere in campo il 17 luglio 1994 per giocare la finale del Mondiale di Usa ’94 dopo appena ventiquattro giorni dall’infortunio al menisco. Il 23 giugno era uscito durante la seconda gara del girone contro la Norvegia. Per lui, che allora aveva 34 anni, la Coppa del mondo sembrava finita. Non fu così. Contro il Brasile scese in campo e giocò tutti i centoventi minuti. Andò male alla Nazionale allenata da Arrigo Sacchi. Il secondo posto nel calcio è solo una sconfitta, non un motivo di gioia.

Una storia simile a quella di Roberto Baggio. Il numero 10 del Brescia inseguiva il Mondiale, l’ultimo che avrebbe potuto giocare. Il 31 gennaio 2002, però, si ruppe il legamento crociato del ginocchio sinistro. Sembrava la fine di un calciatore straordinario. Mica semplice per un trentacinquenne riprendersi da un infortunio del genere. Settantasei giorni dopo ritornò in campo, segnando pure una doppietta. Giovanni Trapattoni però non lo convocò per il Mondiale in Giappone e Corea del sud.

“Perché certi atleti riescono a recuperare prima di altri? E che ne so. La scienza è esatta fino a prova contraria. Ci sono atleti che sono la prova contraria”, disse nel 1976 il medico Simone Teich Alasia, il medico, tra i massimi esperti di chirurgia plastica ricostruttiva e di grandi ustioni, che operò Niki Lauda dopo l’incidente al Nurburgring nel quale rischiò di morire. Il pilota tedesco venne salvato. Per cinque giorni le sue condizioni sembrarono pronte a peggiorare. Quaranta giorni dopo era già in pista pronto a lottare per conquistare il Mondiale (che perse per un punto decidendo di non disputare la gara sul circuito del Fuji) con James Hunt.

Michael Schumacher dopo essersi rotto una gamba in seguito all’incidente dell’11 luglio 1999 al Gran Premio d’Inghilterra, disse: “Se è riuscito a tornare a guidare Lauda ce la farò anch’io. Lauda ci ha insegnato la speranza, ci ha dato la certezza che con la forza di volontà si può superare ogni cosa”. Sofia Goggia lo ha ribadito ai Giochi olimpici di Pechino 2022.