Sven Goran Eriksson, l'allenatore che vanta innumerevoli tentativi d'imitazione

Francesco Gottardi

La sua eredità unisce il calcio europeo. Da Mancini a Simeone, da Ancelotti a Inzaghi: tutti, quando giocavano, hanno preso appunti dallo svedese che annuncia il ritiro definitivo. Senza grandi proclami, ma non ce n’è mai stato bisogno

Forse la vera fine era arrivata una notte d’estate del 2006, osservando i suoi ragazzi capitolare a uno a uno davanti alle parate di Ricardo: Wembley è solo l’ultima delle sciagure inglesi dal dischetto. “Avrei dovuto arruolare un mental coach per quei rigori”, ammise anni dopo Sven Goran Eriksson. “È stato lo sbaglio più grande della mia carriera”.

Da lì in poi è stata una dolce planata, per continenti e campionati, club e nazionali. Sempre più defilati: Messico, Cina, Filippine. Vacanze in centroamerica e rimpatriate scandinave. Lo stop definitivo è arrivato in questi giorni. A 74 anni, gli ultimi 46 trascorsi in panchina: d’ora in avanti, Eriksson sarà il consulente sportivo del Karlstad Bk. Una squadra di terza serie svedese, che l’allenatore del secondo scudetto biancoceleste potrà seguire dalla sua villa sui laghi nella contea di Värmland. “C’è tanto spazio per il calcio in questa regione: la mia presenza qui farà da cassa di risonanza per giocatori, dirigenti e allenatori”.

 

È tornato a casa, Sven. In nuove vesti, quasi in silenzio. Ma mica per oblio generale: trascinare le outsider – oltre alla Lazio, Göteborg e Benfica – fra le grandi d’Europa è un’impresa riuscita a pochi. Semmai, il lascito dello stratega è talmente radicato nel gioco di oggi che viene spontaneo non farci caso. Come la terra sotto i piedi. C’è dell’Eriksson nei trionfi di Ancelotti, dal Milan al Real Madrid. C’è nelle notti magiche targate Mancini, il suo luogotenente più leale – lui con un mental coach lavora da tempo, chissà se memore del maestro. C’è perfino nella gestualità ruvida del calcio di Diego Pablo Simeone, in apparenza così lontana dal fine aplomb dello svedese: aria da professore, portamento british, uscite mai sopra le righe. Tutti loro erano calciatori di Sven Goran. Uomo del suo tempo e di tempismo, capace di intercettare uno spettro generazionale senza pari: ha accompagnato Falcao verso il tramonto giallorosso, per poi svezzare Roberto Baggio e Wayne Rooney. Ha provato a fermare Maradona, e a fare lo stesso con Cristiano Ronaldo. Senza riuscirci, naturalmente. Un ponte fra gli dèi di ieri e di domani.

Quella di Eriksson non è stata la carriera più lunga di sempre. Forse una delle. Non è stata la più vincente. Forse una delle, 18 trofei in bacheca. Ma ha formato e influenzato scuole di pensiero come nessun’altra nel calcio moderno. Prendiamo il periodo in Serie A (1984-89 e 1992-2001), “il più bello della mia vita”, come dichiarato in una recente intervista al Guardian. C’è un filo conduttore unico, lungo tutte le squadre allenate dallo svedese. Roma, Fiorentina, Sampdoria e Lazio. In crescendo. La base tattica: difesa a quattro, pressing aggressivo, spinta sugli esterni. La chiara identificazione di un leader tecnico per reparto: Vierchowod-Gullit-Mancini in blucerchiato, Nesta-Nedved-Salas nell’anno dello scudetto. Poi l’ingrediente più prezioso: l’esaltazione delle singole personalità dei suoi ragazzi, ciascuno secondo le proprie inclinazioni. Più dell’aura del condottiero, Eriksson aveva quella del grande padre in grado di gestire fuoriclasse via via più completi. E dunque complessi.

Non è un caso, se da questi gruppi squadra è emerso un numero anomalo di allenatori d’élite. Dei magnifici tre s’è già detto. Ma poi ci sono anche Simone Inzaghi all’Inter, Sergio Conceiçao al Porto, Gareth Southgate nella sua Inghilterra. E più giù Zenga, Corini, Montella, Mihajlovic, Stankovic. Tutti non se li ricorda nemmeno lui: “E Nesta, che fine ha fatto?”, Svennis chiese in occasione del 120esimo anniversario della Lazio. Con sincera curiosità e un certo distacco. Perché l’automatismo è reciproco. Il calcio non ha pensato grandi cerimonie per l’uscita di scena di Eriksson. E salvo qualche eccezione – il rapporto ancora speciale col Mancio, una telefonata a Inzaghi e colleghi dopo un traguardo importante – Eriksson, come un vento già trascorso, non si preoccupa più di tanto dello stato del seminato. Entrambi sanno, e tanto basta.

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