Il Foglio sportivo
Dentro la spaventosa testa di Sofia Goggia
Il segreto del suo successo non sono le qualità fisiche e muscolari, il talento o la tecnica, ma la mentalità
La straordinaria impresa di Sofia Goggia ai Giochi Olimpici di Pechino è stata, letteralmente, un capolavoro ancora più affascinante in virtù di quella medaglia d’oro non arrivata per 16 centesimi. Un capolavoro imperfetto, come quella Pietà Rondanini, abbozzata e lavorata dell’ottantanovenne Michelangelo, che esalta la sua commovente potenza ispiratrice se messa a confronto con la tecnicamente perfetta Pietà di San Pietro, scolpita dall’artista poco più che ventenne, nel pieno delle sue forze e della sua volontà di stupire il mondo. Sofia Goggia ha lavorato con una maturità e un’inaudita forza d’animo in ogni minuto dei ventitré giorni successivi alla spaventosa caduta di Cortina ed è una perfetta testimonial del mondo in cui funziona la testa di un performer assoluto, sportivo, artista, letterato o scienziato che sia.
Qualità fisiche e muscolari? Certo. Tecnica e talento fuori media? Sicuramente sì, ma il segreto non è lì. Il segreto di quel capolavoro è in una spaventosa mentalità che si è tradotto nella volontà di fare tutto ciò che era umanamente possibile per raggiungere un obiettivo, con l’atteggiamento giusto. Visto che abbiamo scomodato un benchmark impegnativo, rilanciamo: ciò che è successo nei ventitré giorni e nella discesa olimpica d’argento è forse diverso rispetto al lavoro “matto e disperato”, come lui stesso lo ha definito, del Michelangelo che era scultore, ma fu chiamato ad affrescare gli oltre 5.000 metri quadrati della Cappella Sistina, arrampicato su delle impalcature? Io credo di no. C’è un che di “fachirico” in queste imprese: una quantità di fatica immensa e la capacità di spingersi oltre qualunque vincolo e condizionamento della logica; c’è la volontà di smentire coloro che ti dicono di lasciar perdere ricordandoti che le tue probabilità sono minime; c’è il rifiuto dell’idea di non potercela fare.
Nella mente dei campioni (e dei performer di eccellenza) c’è anche una necessaria capacità di solitudine, di isolamento da quel contesto che ti ricorda quanto tutto sia complicato. Non è un caso che Sofia Goggia abbia spesso raccontato di rigenerarsi in un suo posto speciale. Ha dichiarato spesso: “Ho una baita in Valle d’Aosta a 2.200 metri di altitudine nel parco nazionale del Gran Paradiso. Non c’è l’elettricità né l’acqua corrente. Faccio luce con la lampada a olio e mi lavo nel torrente” sottolineando come quel luogo sia quello della sua riconnessione con se stessa e con la natura.
La mente dei campioni è capace di sopportare la solitudine, non c’è dubbio, ma è capace anche di sapersi fidare ciecamente del lavoro di un team: nel caso di Sofia Goggia uno special team competente e numeroso, dove spiccano tre professionisti straordinari: il dott. Claudio Zorzi, luminare ortopedico dell’Ospedale Sacro Cuore di Negrar (Verona) che ha trattato il ginocchio lesionato con infiltrazioni di Prp (plasma ricco di piastrine), un gel che si ottiene da un normale prelievo di sangue venoso del paziente e che viene successivamente centrifugato con il risultato di un composto concentrato di plasma e piastrine e, quindi, iniettato all’interno dell’articolazione con una semplice infiltrazione. “Certo, lei ha contribuito col suo coraggio e volontà di ferro, assieme ai suoi preparatori atletici, all’incredibile recupero e straordinario risultato ottenuto” ha dichiarato il dott. Zorzi, quasi stupito del suo stesso miracolo. E fra quei preparatori evocati dal dott. Zorzi non si può non citare Flavio Di Giorgio, veronese anche lui, guru dei lavori di forza, che in passato aveva lavorato anche con Filippo Tortu e che ha definito la partecipazione di Sofia ai Giochi di Pechino come “la missione delle missioni”. E poi lo psicologo della prestazione Giuseppe Vercelli, torinese, storico responsabile dell’area psicologica della Juventus che da molti anni lavora con la mente di Sofia. “In questa occasione abbiamo lavorato sulla sostituzione di un pensiero negativo e della sua relativa emozione con uno funzionale, basato su un aspetto tecnico della sciata” dice Vercelli, un professionista che ha dimostrato, lavorando con tanti atleti di sport diversi, come sia possibile vincere con la mente.
Se penso alla mia esperienza sportiva posso testimoniare che nella testa dei grandi atleti che ho allenato (davvero tutti) c’è sempre l’idea quasi ossessiva del voler perfezionare un gesto. Anzi, mi verrebbe da dire di innamorarsi di quel gesto, di volerlo migliorare in ogni istante a disposizione, magari anche solo di qualche centesimo di secondo o di qualche millimetro. È un pre-requisito che definirei essenziale per chiunque arrivi a praticare una disciplina sportiva al livello più alto. Tuttavia c’è una seconda caratteristica, che fa selezione: è la capacità di saper fare bene quel gesto assumendosene la totale responsabilità. Nel mondo dello sport (e non solo) non tutti hanno la capacità di restare fuori dal perimetro dell’alibi, che è la più veloce ed efficace via d’uscita di fronte all’insuccesso.
Nella testa dei campioni ciò che fa la differenza è una terza qualità: saper fare bene una cosa, assumendosene la piena responsabilità… quando è difficile! Ho allenato e visto migliaia di atleti molto bravi quando era facile, ne ho visti infinitamente meno essere forti quando è difficile. Eccola, la caratteristica definitiva, quella che Ernest Hemingway raccontava negli eroi dei suoi romanzi. Lui la definiva grace under pressure ed è ciò che è successo nei ventitré giorni e nei 2.704 metri della pista di Pechino, oppure che abbiamo letto nella sfida contro il marlin di Santiago de “Il vecchio e il mare”. Il capolavoro non è nel successo in quanto tale, ma nello sforzo che serve per cercare quel successo.