Stelle di ieri e di oggi
Pallone e patriottismo. Il calcio in guerra contro Putin
Dal Colonnello Lobanovs’kyj (che era ucraino) a Mircea Lucescu, rumeno con l'Ucraina nel cuore, al mito Sheva: viva la libertà. E sanzioni della Uefa in arrivo (forse). Tra finale di Champions a Pietroburgo e i rubli di Gazprom
Dritte e geometriche come solchi d’aratro nei campi infiniti del Granaio d’Europa, le squadre del Colonnello Lobanovs’kyj avanzavano travolgendo difese e trincee. Non vincevano sempre, spesso scoppiavano ai supplementari (tanto per stare al pronostico bellico della ct Marta Dassù), ma quando vincevano erano uno spettacolo, ogni partita una guerra lampo. E pazienza che il Colonnello fosse tale perché lo era dell’Armata Rossa, e molte magnifiche battaglie combatté quando la sua Futbol’nyj Klub Dynamo Kyiv, era la Dinamo Kiev (mind the transliteration), una squadra dell’Unione sovietica, e altre guerre vinse con la maglia rossa dell’Urss. Ad impossibilia nemo tenetur. Ma era ucraino, Valerij Lobanovs’kyj, ed orgoglioso di esserlo.
Così che dopo un comprensibile periodo di smarrimento, che lo portò ad allenare fin negli Emirati e in Kuwait, come un expat, tornò nella sua Kiev (Kyïv) natale e riprese in mano la gloriosa squadra che aveva forgiato tra le migliori della storia del calcio, e che ora vinceva i campionati dell’Ucraina indipendente. Vinse ancora cinque volte di fila e alla fine, quando ormai il cuore gli faceva più dribbling di una mezzala, si sedette sulla panchina della Nazionale ucraina. Come un vero patriota. Chissà cosa direbbe oggi, ma il tempo ha risparmiato al Colonnello quest’ultima guerra. Soldato tutto d’un pezzo, gli si spezzerebbe il cuore, ma riconoscendo lo stato di necessità. E direbbe signorsì al presidente (sloveno) Ceferin che ha convocato per questa mattina una riunione d’emergenza dell’Uefa per stabilire che la finale di Champions non si giocherà alla Gazprom Arena di San Pietroburgo, il cortile di casa di Putin. E anche per decidere (ma forse, eh) di tagliare il contratto da main sponsor di Gazprom, che vale milioni (e ci sono pure le penali, cavoli). La schiena dritta alla Uefa rischia di costare come una sanzione.
Scommetteremmo una grivnia che stavolta vincerà l’onore, lo stesso di Mircea Lucescu. Che non è ucraino ma rumeno e cittadino del mondo, ma che in Ucraina ha trovato lunga vita e carriera, facendo diventare una squadra famosa lo Shakhtar Donetsk, che però essendo rimasta intrappolata nel Donbass (Donbas) da anni gioca in permanente trasferta, a Leopoli (o meglio: la Uefa continua a farla giocare in un’altra città, come se non fosse successo niente). Lucescu che ora è sulla panca della Dinamo, ha detto da patriota: “Non lascerò Kyiv per tornare in Romania, non sono un codardo. Spero che queste grandi persone senza cervello fermino questa guerra”. Lo sport è bandiera che unisce. E da queste parti molto fa il calcio: prima della “disintegrazione della Russia storica sotto il nome di Unione sovietica”, per dirla con i folli calembour geopolitici dello zar Vladimir, era il football della Repubblica socialista sovietica Ucraina (mind the name) a “insegnare calcio”, come si dice oggi.
E terra buona per campioni anche dopo il putiniano calembour l’Ucraina libera è rimasta. Così la stessa ghirba coraggiosa di Lucescu l’ha mostrata anche Andrij Shevchenko, un vero eroe della nazione. “Oggi è un momento difficile per tutti noi. Ma dobbiamo unirci. Insieme vinceremo! Gloria all’Ucraina!”, ha scritto su Twitter poco prima dell’invasione russa il gran “Sescenco”, secondo l’ineffabile pronuncia berlusconiana. E chissà se oggi il Cav. avrebbe il coraggio di fare uno sgarbo al suo amico di lettone, ingaggiando quel “nazista” di centravanti ucraino, o se se la caverebbe come John Belushi: “Io li odio, i nazisti dell’Ucraina”. Domande vane, come vano è domandarsi cosa farà l’italiano di calcio oggi più importante laggiù, Roberto De Zerbi, che allena per l’appunto lo Shakhtar, la squadra senza patria o che forse ne ha due o anche tre. Per il momento pure lui, altro che Donbas e Putin, s’è mostrato solidale, da un albergo di Kyiv: “Me ne sto in camera, è una brutta giornata – ha detto – Non mi sono mosso, non potevo girare le spalle al campionato, ai tifosi. Ho tredici ragazzi brasiliani, il mio staff, stanotte ci hanno svegliato le esplosioni. L’ambasciata italiana ci aveva sollecitato di andarcene, ma non potevo, sono un uomo di sport”.