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I muri nel ciclismo uniscono, sono la poesia della fatica

Marco Pastonesi

Da quello di Kigali a quello Huy, passando da Montelupone: quando la bicicletta incontra la verticalità

Il primo e l’ultimo. Il primo a essere affrontato, in corsa, dall’inizio dell’anno. E l’ultimo a essere stato inserito, in una corsa del calendario internazionale. Si trova a Kigali, la capitale del Ruanda, ed è stato battezzato semplicemente Wall of Kigali (o Mur de Kigali), ma il suo vero nome è Kwa Mutwe e rappresenta il gran finale della tappa finale del Tour of Rwanda, l’equivalente dei Campi Elisi per il Tour de France. Kwa Mutwe si trova nel quartiere popolare di Nyamirambo e porta verso il Mumena Stadium: 400 metri bollenti anche di popolo, da 1.470 a 1.522 metri, pendenza media del 10,8 per cento e massima del 18, aggravata dal pavé. Introdotto per la prima volta nel 2016, in quella edizione il muro sarebbe dovuto essere scalato due volte, ma gli organizzatori, preoccupati per un diluvio che rendeva la strada – cubi di argilla – scivolosa, si accontentarono di una. Chi procedeva a zig zag, chi metteva i piedi a terra, e la folla, incurante della pioggia battente, tenuta a bada, anche a frustate, dalla polizia armata di canne di bambù. Da allora il Wall of Kigali è diventato il simbolo della corsa e l’attrazione del Mondiale che qui si correrà nel 2025. Stavolta è stato inserito nell’ottava e ultima tappa, domenica, 75 km in un circuito cittadino a Kigali, con tre passaggi. 

Muri e sterrati sono le più recenti, e allo stesso tempo antiche, tentazioni del ciclismo. Non c’è corsa che non ceda alla voglia di inserirli nei tracciati: una vecchia novità, un futuro passato, un pionierismo all’avanguardia. Il muro più storico è quello di Huy. Si trova in Belgio, è il simbolo della Freccia Vallone. Un calvario che sposa le rituali preghiere dei pellegrini con le tradizionali invocazioni dei tifosi. Ufficialmente è lo Chemin des chapelles, il cammino delle cappelle, un sentiero punteggiato dalle stazioni con le edicole, ci si impenna da 83 a 204 metri in altezza, 1.300 metri in lunghezza al 9,3 per cento, di cui 900 metri all’11,6, con punte del 19. A occhio, anche a piedi, sembra di più. I corridori sprintano in piedi sui pedali, tentando di ignorare l’acido lattico e dimenticare l’apnea.

Il muro più verticale è quello di Montelupone. Nelle Marche, nella provincia di Macerata, alla Tirreno-Adriatico. Si comincia dai Piani San Firmano, 1.700 metri di parete per elevarsi da 51 a 263 metri, un ascensore senza cavi e senza cabina, con una pendenza media del 12,5 per cento e massima del 25, ai limiti del ribaltamento, più adatta ai “fachiri”, favoriti dalla magrezza e anche dall’insensibilità alla sofferenza, che agli scalatori. Quest’anno la Tirreno-Adriatico rinuncia al muro di Montelupone, ma l’11 marzo, nella tappa Sefro-Fermo, accoglie quello di Monte Urano (al 15 per cento), Capodarco (al 18) e nella stessa Fermo (al 10). La Corsa dei due mari e dei tre muri.

La corsa dei muri è il Giro delle Fiandre. E il muro per eccellenza è suo: Muur van Geraardsbergen, che noi italiani conosciamo meglio nella versione francese Grammont, mille metri di lunghezza, 90 metri di dislivello, significa una pendenza media del 9 per cento, e massima del 20, il tutto amplificato dalle urla dei tifosi e ingigantito dalla tradizione della corsa e santificato dalla presenza della cappella, molti lo chiamano Kapelmuur o solo Muur, come se gli altri fossero volgari imitazioni. La superficie è un pavé scabroso, viscido anche quando non piove, chi si ferma è perduto e poi sale a piedi, all’odore di fritto e di birra ci si abitua, alle emozioni trasmesse dal passaggio dei corridori sulla stradina mai. Se nella vita si dovesse scegliere una sola corsa, allora il Fiandre. E in quella corsa, il Muur. Preparatevi, organizzatevi, fate in fretta: c’è già la coda.

Al Fiandre, ma non solo al Fiandre, appartengono il Paterberg (360 metri, 12,9 per cento di media, 20,3 di massima), il Koppenberg (600 metri, 11,6 e 22), il Vecchio Kwaremont (2.200 metri, 4 per cento di media, 11,6 di massima), il Molenberg (463 metri, 7 di media e 14,2 di massima). Un labirinto di impennate stradali, con il pubblico che si sposta da una banchina all’altra facendo tremare le colline, le tavolate, le grigliate. Uno spettacolo nello spettacolo. Alcolico, colesterolico, ciclistico. E per chi ci crede – esiste un dio del ciclismo? – perfino religioso.

 

Il primo muro italiano è stato quello di Sormano, una parete nord anche se molto al sud delle classiche del nord. Nacque, al mondo, nel 1960. Lo esplorò e lo lanciò Vincenzo Torriani, il più visionario e provocatore dei direttori di corsa della “Gazzetta dello Sport”. Era il 1960. Torriani cercava un titolo da prima pagina. Bruno Raschi gli regalò la definizione di “corrida”. Una mulattiera, una scorciatoia, ma verticale, da capre o da camosci, non da corridori e neanche da scalatori, fra Sormano e Pian del Tivano, nel Triangolo Lariano, 2.400 metri con una pendenza media del 12 per cento e massima del 24 con una pugnalata del 27 (ma dipende dal punto segnato come partenza: c’è chi dice 1.700 metri al 15,7 per cento di pendenza media). Proprio quell’anno, nel 1960, svettò – e fu forse l’unico a non mettere i piedi a terra – Imerio Massignan, detto Gambasecca, uno sherpa vicentino, che un anno più tardi sarebbe stato il primo uomo anche sul Passo del Gavia. Tre anni durò il Muro, poi neppure Torriani si sentì di difenderlo: i tifosi avevano solidarizzato con i corridori e organizzato compagnie della spinta. Tanto che nel 1962 il migliore tempo era stato stabilito da Ercole Baldini, “l’elettrotreno di Forlì” che a forza di bracciate era come se fosse salito in seggiovia. 
Dovunque si alzano i muri. Al Tour de France c’è il Mur-de-Bretagne: lunghezza 2.210 metri, dislivello 49 metri, pendenza 6,5 per cento costante, da rapportone. Alla Vuelta ci sono il muro di Valdepenas de Jaén (mille metri al 9 per cento) e il Collado de Ballesteros (3 chilometri, 14 per cento di media e più del 20 di massima, considerato l’equivalente del nostro Muro di Sormano). Dal Giro Under 23 è stato promosso al Giro d’Italia, al Giro donne, al campionato italiano e alla Veneto Classic il Muro di Ca’ del Poggio, a San Pietro di Feletto, nella zona doc del Prosecco, 1.150 metri di lunghezza e 140 metri di dislivello, pendenza media del 12,9 per cento e massima del 19. Ci sono muri nelle granfondo: la Maratona dles Dolomites, non paga di imporre Costalunga, Sella, Pordoi, Gardena, Giau, Falzarego e Valparola, infierisce sugli iscritti con il Mür dl Giat, il muro del gatto, 370 metri di lunghezza, 46 metri di dislivello, con una pendenza media del 12,4 per cento e massima del 19. Ci sono muri personali: la Granfondo Nibali, nelle Marche, ha inaugurato il Muro dello Squalo, a Cingoli, 1.300 metri di lunghezza e 150 di dislivello, pendenza media all’11,6 per cento e massima al 15. A Riccardo Magrini, che da corridore non li avrebbe graditi ma da telecronista ci sguazza, è stato chiesto di inaugurare il Muro dei Matti a Palagano, sull’Appennino modenese: 1.900 metri con una pendenza media del 21 per cento e stilettate fino al 28, roba da matti, appunto. La Maremma ribatte con il Muro del Pirata, nel senso di Marco Pantani che qui (prese casa a Poggio Murella, vicino a Manciano) veniva per cercare solitudine e rinascita: è un’erta durissima, che porta dalle terme all’abitato di Saturnia, 3.800 metri con una pendenza che aumenta spietatamente ogni 500 metri fino ad arrivare a punte del 22 per cento nel chilometro finale. Un paradiso infernale o un inferno paradisiaco?

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