Il Foglio sportivo
Lo sportwashing del Golfo
Dal Qatar all’Arabia, il soft power degli emiri ormai non si ferma più. Ma le misure anti Russia possono cambiare la geografia dello sport
Ènato tutto su un campo da tennis. Hamad Bin Khalifa al Thani, erede al trono e appassionato giocatore di tennis, in quell’inizio di anni Novanta lottò per portare nel piccolo emirato i campioni più grandi. Il Qatar ExxonMobil Open è oggi appuntamento fisso del calendario e, sebbene non appartenga ai tornei top annuali, è “solo” un ATP250, in passato ha visto in campo un po’ tutti i più grandi, da Roger Federer a Rafael Nadal e Novak Djokovic. Ventinove anni dopo, il Qatar, guidato dal giovane Tamim Bin Hamad al Thani, il figlio dell’emiro tennista, ha ottenuto la più sorprendente vittoria sportiva della sua storia: ospiterà tra novembre e dicembre i Mondiali di calcio, tra le polemiche sollevate dai gruppi per i diritti umani per le condizioni di sicurezza dei lavoratori impiegati per costruire gli stadi.
Quando il Qatar ha deciso di investire nello sport internazionale ha pensato soprattutto al potenziamento del proprio soft power, come hanno fatto in questi decenni altri regimi. Oggi, dopo che Pechino è diventata la prima città al mondo ad aver ospitato sia i Giochi olimpici estivi sia quelli invernali, la Cina dimostra come la politica dello sport sia un’arma fondamentale nella proiezione e nel riflesso della propria potenza e del proprio peso internazionali.
La Russia ha adottato la stessa strategia, investendo vaste somme di denaro nell’organizzazione di eventi sportivi: le Olimpiadi invernali di Sochi nel 2014, i Mondiali di calcio nel 2018. Non è dunque per nulla accessorio il boicottaggio dello sport internazionale in queste ore ai danni di Mosca dopo l’invasione dell’Ucraina.
Il piccolo Qatar, con i suoi 2,8 milioni di abitanti, è stato il primo dei potentati del Golfo a riconoscere che un posto al sole sulla scena internazionale passava attraverso il mondo della cultura, dell’arte e dello sport: ha ospitato nel 2006 i Giochi asiatici ed è diventato tappa del Motomondiale che riparte proprio da qui in questo weekend. I vicini hanno seguito il suo esempio. Gli Emirati sono oggi parte dell’Uci World Tour di ciclismo, ospitano ad Abu Dhabi il Gran premio conclusivo della stagione di Formula 1, l’anno scorso decisivo per l’assegnazione del titolo a Max Verstappen, numerose gare internazionali di equitazione, un torneo di tennis ATP500, il Dubai Desert Classic, torneo di golf del circuito dello European Tour, i Globe Soccer Awards e il Mondiale di calcio per club. Gli ultimi in ordine di tempo a essersi interessati al soft power sportivo, con l’avanzare inesorabile verso il trono del principe ereditario Mohammed Bin Salman, MBS, sono i sauditi. Il regno ultraconservatore sotto la guida non ufficiale del giovane, ambizioso e controverso figlio di re Salman ha aperto il paese sia alla musica sia allo sport, dopo decenni di soffocanti regole religiose. Da due anni organizza il Dakar Rally e ha ospitato per la prima volta nel 2021 un Gran premio di F1 a Jeddah.
Il soft power sportivo non si ferma ai confini del Golfo. I potentati della regione investono da anni miliardi di euro nel calcio europeo. Nasser Ghanim Tubir Al-Khelaïfi è un imprenditore del Qatar, presidente del Paris Saint-Germain e dell’European Club Association; è un consorzio guidato proprio dal principe ereditario saudita Mbs ad aver comperato nel 2021 il Newcastle United Football Club. Lo sceicco emiratino Mansour, politico e membro della famiglia regnante, attraverso la holding City Football Group costruisce una rete globale di società calcistiche appartenenti ai principali campionati nazionali: club che vanno dal Giappone agli Stati Uniti, dalla Cina all’India, con in vetrina lo sfavillante Manchester City di Pep Guardiola. Senza scordare Mohammed Ben Sulayem, sceicco di Dubai, imprenditore ed ex rallysta, diventato presidente della Fia, la Federazione Internazionale che governa l’automobilismo sportivo e non solo.
Stadio, museo e università: sono le parti di un trittico che ha obiettivi tutti politici e che in Qatar e negli Emirati esiste nella sua forma completa, non ancora in Arabia Saudita. Così spiega Alexandre Kazerouni, politologo, ricercatore all’Ecole Normale Supérieure di Parigi, autore del saggio Le miroir des cheikhs: Musée et politique dans les principautés du golfe Persique (Puf) che indaga sulla nascita e la moltiplicazione di poli culturali e artistici internazionali nel Golfo: dalle sedi di università straniere come NYU e la Sorbonne, ai musei come il Louvre e il Guggenheim ad Abu Dhabi. “Con lo sport – ci dice – è la stessa dinamica: il trittico è sviluppato e sfruttato da chi al potere in questi paesi: è un mezzo per arrivare al potere”. Nella dinamica delle faide di palazzo, a rappresentare un’opportunità è spesso un evento scatenante.
Hamad Bin Khalifa al Thani diventa emiro nel 1995, dopo aver guidato un colpo di stato ai danni del padre: nonostante fosse lui il principe ereditario, temeva che l’anziano re Khalifa potesse indicare un altro successore al trono. Negli anni precedenti, Sheikh Hamad aveva lavorato al suo obiettivo consolidando la propria influenza, sia in casa sia all’estero, eliminando dal governo i suoi concorrenti, favorendo la nascita della più estesa base americana nella regione, al Udeid, e muovendosi con abilità nel mondo dell’arte e degli sport: ha creato il Museo di arte islamica di Doha, portato nella capitale il tennis internazionale, organizzato il primo Qatar Masters di golf.
La morte nel 2004 del padre fondatore degli Emirati, Zayed bin Sultan al Nahyan, ha aperto una nuova era di riequilibrio del potere, e anche in questo caso il trittico stadio, museo, università è stato un mezzo per l’attuale principe ereditario e de facto leader di Abu Dhabi, Mohammed Bin Zayed, di emergere.
Nel caso dell’Arabia Saudita, la data spartiacque è invece il 2015, la morte di re Abdullah bin Abdulaziz, e l’ascesa alla corte di nuove figure, soprattutto, nel 2017, quella di Mohammed bin Salman. Il principe ereditario utilizza tra le altre la carta degli eventi sportivi sia per guadagnare consensi interni sia per posizionarsi come attore internazionale, nonostante le enormi controversie legate alla sua figura a causa della repressione domestica, della sanguinosa gestione della guerra in Yemen e soprattutto della barbarica uccisione del giornalista e oppositore Jamal Khashoggi, approvata, secondo l’intelligence gli Stati Uniti, dallo stesso MBS.
Se è al soft power che guardano le case regnanti del Golfo quando invitano piloti di Formula 1 e ciclisti, per quanto riguarda l’Arabia Saudita esiste anche un altro movente, tutto domestico. Dalla sua ascesa a corte nel 2017, MBS ha lanciato una serie di riforme che hanno come obiettivo la diversificazione dell’economia nazionale dal petrolio ma che mirano anche ad avvicinare un palazzo pieno di 80enni a quei due terzi della popolazione sotto i 30 anni, ci spiega Cinzia Bianco, dello European Council on Foreign Relations. Aprire i cinema dopo decenni senza proiezioni, portare a suonare a Riad il dj David Guetta dopo decenni di silenzio della musica e organizzare un Gp a Jeddah fanno parte della stessa strategia interna, rivolta a quei giovani sauditi che per anni sono andati a divertirsi all’estero, e hanno speso soldi all’estero. “Esiste una costruzione del consenso che passa oggi attraverso il divertimento”.
C’è poi un interesse più globale: il governo vuole che le persone viaggino in Arabia Saudita, guardino in televisione gli eventi sportivi organizzati nelle sue città. “L’obiettivo ultimo dello sforzo? Purché se ne parli”, dice Bianco, purché la prima impressione di un luogo che in pochi conoscono sia positiva, dopo che per anni il paese ultraconservatore è stato percepito soltanto come esportatore di un’ideologia religiosa radicale.
Il trittico università, stadi, musei aiuta senza dubbio “ad attirare l’attenzione internazionale”, spiega Kazerouni. Quando nel 2017, Mohammed Bin Zayed ha inaugurato il Louvre, accanto a lui – principe ereditario e non emiro – c’era il presidente francese Emmanuel Macron: l’evento lo ha consolidato come rappresentante legittimo per la comunità internazionale, per quei paesi che sono legati all’esistenza del trittico: Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti. È con questi paesi che i sultanati del Golfo siglano contratti di prestazione per servizi legati a istruzione, arte e sport. Mancano nell’elenco Germania e Italia, perché non sono considerate dai regnanti potenze militari strumentali alla loro sopravvivenza: non garantiscono loro la possibilità di protezione. Per le monarchie del Golfo, la guerra del 1991 rappresenta ancora un trauma senza precedenti: il Kuwait avrebbe potuto sparire dalla cartina geografica se l’America e i suoi alleati non fossero intervenuti. La lezione è stata assimilata, e si è fatta strategia politica.
C’è chi però, tra gli atleti, non è entusiasta delle nuove frontiere dello sport. Al Gran premio in Qatar, a novembre, il campione Lewis Hamilton ha deciso di indossare un casco con i colori della comunità LGBTQ+, in protesta contro gli abusi dei diritti umani nel paese. Le allettanti offerte economiche di Riad non sono bastate al tennista Andy Murray, che ha rifiutato uno strapagato invito saudita citando il mancato rispetto dei diritti umani. Milioni di dollari non hanno smosso neppure i golfisti Tiger Woods e Rory McIlroy.
L’Arabia Saudita e i suoi vicini sono accusati dalle organizzazioni per i diritti umani di “sportswashing”: il tentativo di utilizzare lo sport per migliorare la propria reputazione a livello internazionale. Sono 187 i cittadini giustiziati in Arabia Saudita nel 2019, e benché le donne possano ormai guidare nel regno – ultime fuori tempo nel mondo intero – le attiviste che per anni hanno lottato per questo diritto sono state imprigionate e accusano i loro carcerieri di tortura e abusi.
Le voci di atleti fuori dal coro infastidiscono le monarchie locali proprio perché, spiega Cinzia Bianco, mettono in luce argomenti di cui non vogliono parlare, come le accuse di abusi contro i lavoratori stranieri che costruiscono gli stadi in Qatar. Il Guardian ha parlato di 6.500 possibili morti tra i migranti nel paese da quando la Coppa del mondo è stata assegnata. Per questo, le nazionali di Norvegia, Germania e Olanda durante le qualificazioni hanno protestato contro gli abusi ai danni degli operai asiatici. Se è difficile pensare che le azioni di protesta di singoli o piccoli gruppi possano impensierire i regnanti, considerando che lo sport è un business che va oltre i confini del Golfo e che a poco è servito il boicottaggio diplomatico internazionale nei confronti della Cina olimpica, la dura campagna dello sport nei confronti dell’invasore russo potrebbe raccontare una storia nuova.