Il Foglio sportivo
Il primo canestro della storia
Sono passati 130 anni da quando Naismith si inventò il gioco
Crescete e moltiplicateli. Praticanti, canestri, palloni, pantaloncini, poco conta. L’importante era che non ci si fermasse mai, che quell’innovazione prendesse piede e che un numero sempre maggiore di anime venisse salvato. Perché era poi questo l’intento della creazione della pallacanestro, di cui andò in scena la prima partita pubblica 130 anni fa, di queste ore: fare in modo che nei mesi invernali la claustrofobia di un istituto scolastico situato in un Massachusetts gelido al punto da sconsigliare eventuali uscite serali non facesse andare fuori di testa gli studenti (maschi) ospiti dei vari collegi, portandoli letteralmente fuori dalla grazia di Dio.
Salvatore, di quegli studenti e di tutti noi, James Naismith, un canadese di radici scozzesi che quel 12 marzo 1892 aveva 30 anni ed era da poco stato chiamato a insegnare educazione fisica agli iscritti all’International Ymca Training School di Springfield, appunto Massachusetts. Ora, qui bisogna capirci: le Ymca, Young Men’s Christian Association, erano, e sono, un sistema educativo a base religiosa creato nel Regno Unito nel 1844, per fornire attività di svago pulito ai sempre più numerosi giovani che popolavano le città del periodo di massima industrializzazione, alla quale non era seguito un’analoga crescita sul fronte della gestione di quella grande, sconvolgente novità chiamata tempo libero, fino ad allora sconosciuto per le classi non agiate. E nel segno di un movimento anglosassone chiamato ‘cristianesimo muscolare’, che dopo secoli aveva modificato l’idea che la dottrina aveva del corpo umano: non più indegno scrigno per l’anima ma, ispirandosi al pagano mens sana in corpore sano, un tempio dello spirito da esaltare, non più mortificare.
La sede di Springfield, fedele ai dettami originali, si era dedicata alla formazione di futuri segretari di altre sezioni della Ymca, ma c’era stato quel problema dello svago nei momenti liberi dallo studio, per il gruppo di 18 studenti del 1891 che pareva particolarmente irrequieto. Visto l’insuccesso di due precedenti istruttori con attività come flessioni, salti della cavallina e marce lungo il perimetro della palestra, il responsabile Luther Gulick si ricordò di aver sentito uno studente appena laureato, appunto Naismith, dire che sarebbe stato facile inventare un gioco in grado di far divertire quel gruppuscolo e tenerlo impegnato, dunque lontano da cattivi pensieri. Un progetto a tavolino: Naismith aveva visto che i primi esperimenti (tra cui… rubabandiera) non avevano funzionato, capito che football, rugby, calcio e lacrosse erano troppo violenti per essere giocati in quel piccolo spazio e si era convinto che quel nuovo sport avrebbe dovuto avere le migliori caratteristiche degli altri, non praticabili in quegli spazi angusti.
Doveva essere giocato con una palla, come tutti i giochi che fino a quel momento avevano avuto successo; non ci dovevano essere contatti, e quindi la palla doveva essere passata e non trasportata; e doveva privilegiare la tecnica rispetto alla fisicità, quindi la suddetta palla doveva essere collocata in un recipiente molto in alto, non in una porta dove avrebbe anche potuto essere gettata con la sola forza. Alla radice di quest’ultimo ragionamento c’era un gioco che Naismith aveva fatto da ragazzino, il lancio di pietre per farne cadere una più grande in bilico su un macigno: solo una traiettoria arcuata otteneva lo scopo, non un semplice lancio diretto. Il resto, per assurdo, è casualità: come recipienti, Naismith aveva pensato a scatole di legno ma il custode della palestra aveva solo cesti, e quei cesti furono fissati nell’unico punto della palestra in cui fosse possibile appenderli solidamente, la balconata, che determinò così in modo del tutto estemporaneo l’altezza dei canestri da quel dicembre 1891 in poi.
La partita di quei 130 anni fa esatti, tra una… selezione di quei 18 studenti e il corpo insegnanti, finì 5-1 per i primi e l’unico canestro dei professori lo segnò Amos Alonzo Stagg, che era doppiamente coinvolto: come cestista rudimentale e come allenatore della squadra di football, sport praticato dalla maggioranza dei suoi avversari. Le cronache dicono che alla partita, dalla balconata a cui erano appesi i cesti, senza tabellone che ancora non era stati pensato, assistettero circa 200 spettatori, che videro un gioco molto diverso da quello di oggi: prima di tutto, solo due anni dopo il numero di giocatori fu ridotto da nove a cinque, in più non c’erano ancora – lo si intuisce dal punteggio finale – il cronometro per andare al tiro né l’idea del palleggio, dato che la palla si muoveva da un giocatore all’altro senza mai toccare terra. Fondamentale per evitare contatti ruvidi in un ambiente angusto, anche se Naismith aveva previsto che il nuovo sport, ‘basket ball’, si giocasse anche in campi da calcio, con decine di persone e numerosi palloni, in uno spirito democratico che avrebbe forse impedito lo sviluppo vertiginoso di questi 130 anni.
La partita del 12 marzo e la crescita successiva rappresentano del resto una specie di sogno per la mentalità americana: come scrisse Stephen Jay Gould, paleontologo e studioso dell’evoluzionismo, tra il modello creazionista e quello evoluzionista l’americano medio ha sempre preferito il primo perché permette di identificare eroi e luoghi sacri. Ecco allora la perfezione involontaria dell’invenzione di Naismith: ci sono un nome, una data ed un luogo, tutti venerabili e venerati, al contrario di quanto accaduto per football e baseball. Il football non ha un inventore mentre per conferire un’aura leggendaria al baseball ci si è dovuti immaginare la paternità del colonnello Abner Doubleday, che nel 1839 avrebbe definito i dettagli dello sport nel prato di una fattoria a Cooperstown, nello stato di New York. Ma a stabilirlo fu nel 1907 un comitato designato dalla lega di baseball, sulla base di indizi e passaparola molto labili, se è vero che nel corposo archivio di lettere del colonnello non compare mai alcuna citazione del baseball e neanche il lungo necrologio del New York Times alla sua morte, 1893, faceva alcun accenno alla sua presunta invenzione.
Naismith invece la sua creatura se l’è curata e portata in giro, infervorato per quello spirito innovatore che applicò anche su altri soggetti, dato che fu lui, per protezione personale più che per lungimiranza, a costruire la prima versione di rudimentale casco da football. Spesso con la testa tra le nuvole, più avanti negli anni si dimenticava regolarmente di essere andato al lavoro in auto – uno dei primi esemplari di Model T, pioniera pure quella – e tornava a casa in tram, e dopo aver prestato servizio come cappellano nella Prima Guerra mondiale sostenne di essere diminuito di cinque centimetri di statura per via delle ore e ore di cammino sul fronte. Bizzarrie di uno che passato alla University of Kansas dava da mangiare ai giocatori carne di lepre, ritenendo che li avrebbe resi più veloci, e che prima di dedicarsi agli studi religiosi aveva fatto il boscaiolo per un paio di anni.
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