il foglio sportivo
L'effetto che fa una Milano-Sanremo che parte dal Vigorelli
Non si poteva pensare a una partenza più affettuosa. Partire dal Vigo significa onorare la geografia del ciclismo e la storia dei corridori
Aveva due case. Tutt’e due a Milano. La prima alla Certosa di Garegnano, che una volta era periferia e adesso è quasi City Life. L’altra in via Arona, che una volta era il borgh di scigolatt, dei cipollari, degli ortolani, e adesso è ancora e sempre il Vigorelli. Volendo, ci sarebbe addirittura una terza casa: i casinò.
Il Vigorelli sta ad Antonio Maspes come San Siro sta a Peppino Meazza. La sua eterna seconda casa. O forse la prima. Quella dove, ai tempi d’oro (sette medaglie d’oro ai Mondiali di velocità, la prima nel 1955, l’ultima nel 1964, due volte proprio al Vigorelli, nel 1955 e nel 1962), saltava sulla bici e pedalicchiando quei neanche quattro chilometri di strada arrivava sul presto, ad aspettarlo – si fa per dire – c’era il Battista, il guardiano del tempio, un cafferino e poi tutti e due in pista, l’Antonio che per bruciare gli avversari si alleva immobile nel “surplace” e il Battista che per ammazzare il tempo gli leggeva ad alta voce “La Gazzetta dello Sport”, c’è da giurarci, cominciando anche lui dall’ultima pagina, così da trovare prima, presto, subito, le pagine del ciclismo.
Di quell’anello lungo, alla corda, 397,7 metri, largo sette metri e mezzo, vertiginoso fino a una pendenza del 42 per cento, Maspes conosceva centimetro per centimetro i 72 chilometri di listarelle di pino di Svezia (quelle originarie) e gli 80 di abete della Val di Fiemme (quelle della ricostruzione). Dove si respirava, dove s’inclinava, dove si riflettevano i raggi come se quell’ovale fosse una meridiana, dove soffiava il vento e batteva la pioggia, e quella volta dove aveva anticipato lo svizzero Oscar Plattner, quella volta dove aveva bruciato l’inglese Reginald Harris, quella volta dove aveva ingannato l’amico-nemico Sante Gaiardoni, quella volta dove aveva domato l’australiano Ron Baensch. Maspes era stato Coriolano e Cincinnato, gladiatore e cecchino, ne sarebbe diventato cicerone e ambasciatore.
Sabato 19 marzo il ritrovo alle 8.20, la partenza alle 9.50, la Milano-Sanremo numero 113 partirà dalla seconda, o forse dalla prima casa di Antonio Maspes, ma anche dei Seamen e Rhinos (football americano), 10 chilometri neutralizzati da qui (partenza ufficiosa) alla Chiesa Rossa (partenza ufficiale) e altri 298 di gara. Non lo si fa in ricordo delle volate di Maspes nel salotto buono di casa. Ma lo si fa per rianimare la pista, esaltare Milano, celebrare (la) Sanremo, inneggiare alla bicicletta. Partire dal Vigorelli significa onorare la geografia del ciclismo e la storia dei corridori. Come Edoardo Severgnini, milanese di Milano, viale Tibaldi, prima velocista, poi mezzofondista, quindi seigiornista, infine allenatore, sempre due ruote, ma a motore, un tutt’uno con il corridore aspirato nella sua scia. Severgnini era il dio del vento: sapeva come tagliare l’aria, creare il vortice, usare braccia e gambe per proteggere il corridore, e poi sapeva come guidare alla corda, guidare alla balaustra, guidare al massimo. Spazi, masse, traiettorie. E come Fausto Coppi, che il 7 novembre 1942, già in piena Seconda guerra mondiale, arrivò in bici da Castellania, un centinaio di chilometri interpretati come riscaldamento. Maglia di lana, verde-oliva, a cinque tasche, della Legnano, braghe nere, a mezza coscia, della Legnano, casco a strisce imbottite, senza marca, scarpe di cuoio, senza marca, bici da pista, della Legnano, con cerchi in legno, tubolari in seta da 110 grammi l’anteriore e 120 grammi il posteriore, pedivelle da 171 millimetri, 52 denti davanti, 15 dietro, un gioiello preparato da Ugo Bianchi e, pare, anche da Faliero Masi, in tutto sette chili e mezzo. Pronti-via alle 14.12, totale 45 chilometri e 798 metri, 31 metri in più di quelli pedalati cinque anni prima, sulla stessa pista, dal francese Maurice Archambaud. E come Giuseppe Vigorelli, prima corridore, poi dirigente, poi sindaco di Garbagnate, poi assessore a Milano, fu lui a volere la pista, che prese il suo cognome. E come i Beatles, John Paul George e Ringo, il 24 giugno 1965, due concerti da una quarantina di minuti ciascuno, come due tempi di una partita di rugby. E come i match di pugilato, da Duilio Loi a Sandro Mazzinghi e a Nino Benvenuti. E come le esibizioni cestistiche e circensi dei Globetrotters, ma la verità è che qui dentro tutti si trasformano in giramondo.
La Milano-Sanremo è la corsa che parte in inverno e arriva in primavera, è la corsa verso il mare, è la corsa del Turchino (un mago o un colle?) e dei capi (delle piccole salite o dei grandi campioni?), è la corsa più imprevedibile pur nella sua prevedibilissima conclusione in volata, è la corsa che si fa di gran carriera (45 all’ora) e che vale una carriera (il Mondiale dei velocisti), è la corsa che a Masone vive di un risotto libero e gratuito, popolare e stradale, preparato da un gruppo di appassionati dell’Oltrepo Pavese e condiviso fra “suiveur” e addetti, affettati e Bonarda, cicloturisti e motociclisti, riunioni e ricordi. Insomma: la filosofia della bicicletta, il senso del ciclismo.
Ecco la Milano-Sanremo. Se non si poteva pensare a una partenza più affettuosa (Maspes, l’Antonio, sarebbe stato d’accordo), non si può immaginare un arrivo così incerto (Maspes, l’Antonio, ci avrebbe scommesso).