Il Foglio sportivo
Il sogno Juve ora è donna
Sfiderà il Lione nei quarti di Champions League, ma ha già fatto la storia
Nella primavera del 2017 Jean-Michel Aulas, ultradecano presidente dell’Olympique Lyonnais, sentenziò che il calcio femminile avrebbe avuto la chance di svilupparsi realmente anche in Italia solo quando Andrea Agnelli si sarebbe deciso a creare la sezione femminile della Juventus. Il senso profetico di questa dichiarazione era però difficile da decifrare al tempo del suo pronunciamento. Nonostante tra Lione e Torino corrano soltanto 300 chilometri nella realtà geografica, quella sportiva sembrava divisa da distanze oceaniche: in Francia una squadra con già quattro Champions League all’attivo, capace di stabilire la prima dinastia conclamata della non troppo lunga storia del calcio femminile di club, grazie a investimenti ingenti dettati sia da un amore dichiarato per la causa femminile, ma anche da una meno dichiarata volontà di resistenza alla nuova egemonia parigino-qatariota sul calcio francese, ovviamente non contrastabile in campo maschile. Se a questo aggiungiamo l’acquisto in prestito della stella americana Alex Morgan, sbarcata in quei mesi a Lione non solo per vincere la Champions femminile, ma anche per lanciare il Mondiale francese del 2019, e le partite principali giocate nel grande stadio di proprietà inaugurato per gli Europei maschili del 2016, il senso della distanza appariva ancora più vasto.
Il versante italiano rispondeva infatti con un mondo ancora dilettantistico nei mezzi e nell’organizzazione, dalla visibilità minima, con uno scarsissimo numero di tesserate e una pressoché totale assenza di volti identificabili dal grande pubblico. Sono passati solamente cinque anni, e il prossimo mercoledì (ore 18.45, in diretta su Dazn e YouTube) la Juventus ospiterà proprio il Lione per la partita di andata dei quarti di finale della Champions femminile, in un Allianz Stadium che si preannuncia affollato di pubblico, e con un destino agonistico non così scontato a favore delle campionesse francesi. In un sistema del calcio italiano dove da più di un decennio tutto è declino e perdita di competitività internazionale, questi rari episodi di crescita non sono banali, e meritano qualche riflessione.
Il calcio femminile di club è uno sport anfibio. Da un lato condivide da qualche anno strutture, organizzazione, identità e strumenti mediatici (soprattutto in chiave social) del calcio professionistico maschile, fattori che hanno permesso alle calciatrici un salto siderale nella qualità dello spettacolo offerto, e provocato uno storico cambiamento di geopolitica calcistica: gli Stati Uniti sono diventati il passato di questo sport, l’Europa il suo presente (e futuro). La nuova Champions League femminile è la faccia visibile di questa trasformazione: per un ventennio competizione nascosta, giocata in orari assurdi e a volte in campi improbabili, con finali incastrate tra gli appuntamenti collaterali dell’evento maschile, da questa stagione è stata rivoluzionata dall’Uefa con l’introduzione di un nuovo format, con la novità della fase a gironi, una vera e fin qui inedita valorizzazione mediatica e di marketing, orari decenti, un inno dedicato e partite giocate in grandi stadi (il prossimo 30 marzo il ritorno del clasico femminile tra Barcellona e Real Madrid si giocherà al Camp Nou, con 85 mila spettatori già prenotati, mentre la finale si giocherà il prossimo 21 maggio sempre a Torino e sempre all’Allianz Stadium).
La vera grande novità sono però i primi soldi da distribuire ai club partecipanti (e non solo). Nella sua recente autobiografia Billie Jean King, nume tutelare dell’agonismo sportivo femminile e vera madrina ispiratrice di tutte le battaglie economiche recenti e passate delle calciatrici americane, ha ricordato come nelle sue rivendicazioni degli anni Settanta per l’affermazione del tennis professionistico anche per le atlete il denaro sia sempre stato un fattore da esibire per fare presa popolare rispetto alla propria causa. La nuova Champions ha un montepremi di 24 milioni, un puro nulla in confronto ai circa 3 miliardi della competizione maschile, un’enormità rispetto al niente o quasi del passato della massima competizione femminile per club.
L’importanza della qualificazione ai quarti di finale della Juventus non è solo illuminata da questo contesto sportivo-commerciale, ma anche dal suo valore agonistico, poiché ottenuta dopo aver eliminato a sorpresa nel girone il Chelsea finalista della scorsa edizione, squadra ricca di campionesse internazionali. Non è però un risultato casuale, perché nei suoi cinque anni di vita (Andrea Agnelli corrispose alla profezia aulasiana a stretto giro di posta) la squadra bianconera ha scritto un pezzetto significativo di storia calcistica nazionale tout court, conquistando quattro scudetti, una Coppa Italia e tre Supercoppe, con una striscia d’imbattibilità da poco conclusa di ben 54 partite in campionato: un’egemonia totale.
Capita a volte nello sport di imbattersi nell’illusione dell’esistenza di una "meccanica della vittoria": le lunghe serie di risultati positivi appaiono scontate, meccaniche appunto, come se a muoverle e realizzarle vi fosse un’inerzia nascosta, un grande orologiaio magari direttamente collegato al blasone e alla forza economica del club. Come se il rischio e la fatica che ogni vittoria sportiva esige fossero cancellate, rimosse. In realtà accade il contrario: sono lavoro e fatica dei singoli cementati in quel particolare legame spirituale chiamato squadra a produrre l’illusione della meccanicità del vincere, e a creare quello stesso blasone che sembra portare le vittorie da sole. Aver raggiunto questo livello di forza sportiva è il merito storico di Sara Gama e compagne (e di un dirigente tanto silenzioso e felpato quanto competente come Stefano Braghin); merito che nel calcio femminile vale di più, perché i divari economici interni e internazionali non sono ancora così accentuati come in quello maschile.
L’altra faccia della dimensione anfibia accennata in precedenza riguarda invece le fragilità di un movimento molto restio a parlare dei suoi punti deboli. La nuova Champions non rappresenta il movimento nella sua interezza, e nei suoi standard mediani. Insieme e accanto alle atmosfere del calcio professionistico prima richiamate, il calcio femminile di club vede ancora la maggioranza delle proprie partite di campionato disputate in impianti sportivi con poco pubblico presente dal vivo, e una scarsa capacità generale di suscitare attenzione costante. Anche la Francia del Lione plurititolato che vedremo in azione a Torino condivide questa realtà di fatto, tema peraltro sollevato polemicamente dalla stella norvegese Ada Hegerberg qualche settimana fa.
Un mondo in marcia, sospeso tra il “non più” del passato dilettantistico e un “non ancora” fatto di opportunità e incertezze. Soprattutto, il calcio femminile di club ha una densità passionale ancora troppo bassa. I vantaggi immediati che l’apparentamento con la storia secolare del calcio maschile ha dato in termini di opportunità logistiche, economiche e agonistiche non funzionano con la stessa rapidità con la dimensione antropologica e identitaria del tifo, legata ai tempi lunghi della storia. Il “travaso” di tifosi procede con lentezza, la sezione femminile del proprio club è ancora per la grande maggioranza dei tifosi una passione debole, da guardare magari con simpatia, talvolta grazie alla spinta dei risultati negativi della squadra maschile (meccanismo di cui in queste ultime stagioni hanno ad esempio beneficiato sia la Juventus che il Barcellona), in una logica che sui social a volte diventa invocazione della sostituzione degli elementi della squadra maschile ritenuti più deboli tecnicamente con le ragazze più forti, o l’invito a prendere esempio dalle loro capacità psicologiche e morali. Il tutto dentro a uno sfondo più generale fatto di disinteresse, o addirittura di conclamato fastidio per un tipo di agonismo sportivo femminile che si insinua nello sport egemone a livello maschile in maniera combattiva e legata a tematiche politico-sociali più ampie, scatenando quindi per contrasto reazioni sui portieri che non parano, le porte da rimpicciolire, la troppa poca velocità e la troppa poca spettacolarità. Interessante comunque che la nicchia di appassionati duri e puri sia demograficamente molto più giovane, perlomeno in Italia, di un calcio maschile ormai regno della mezza età e della senescenza.