il foglio sportivo
La forza di Vigor Bovolenta è ancora qui
Dieci anni fa all'addio al campione della pallavolo italiana. "Ti entrava dentro e andavi a cercarlo per attingere alla sua positività". Il ricordo di Cristian Savani, Marco Bonitta e Samuele Papi
Sul pullman di Perugia che raggiungeva il palazzetto di Trento, in Cristian Savani maturava la tensione per l’accoglienza che avrebbe ricevuto dai tifosi. Non benevola, questo è certo, dato il modo in cui le strade del capitano della Nazionale e il club trentino si erano separate un paio di anni prima. Era l’8 marzo 2009 e il capitano degli umbri era Vigor Bovolenta che, tra l’altro, l’estate precedente si era speso personalmente perché Savani accettasse l’offerta perugina nonostante Piacenza avesse messo sul piatto qualcosa in più. “Stai tranquillo Sava – gli disse all’orecchio – tu pensa a giocare; ai tifosi ci penso io”. Quella che, in un primo momento, poteva apparire come una frase di circostanza di un capitano a un compagno in difficoltà, nel palazzetto acquisì contorni ben più definiti. Ogni occasione era buona perché Bovo esultasse come un matto, atteggiamento che i tifosi non apprezzarono particolarmente. E, manco a dirlo, cambiarono immediatamente bersaglio. Alla fine Perugia vinse 3-1, Savani fece 17 punti (con 5 muri, quelli che pompano adrenalina nelle vene di chi li fa) e quell’episodio saldò definitivamente il rapporto tra due compagni di squadra che stavano diventando grandi amici. Mentre ricorda l’episodio, la voce di Savani, si rompe per la commozione: “Non posso crederci che siano già passati 10 anni”.
Giovedì 24 marzo saranno trascorsi proprio 10 anni da quando Vigor Bovolenta si accasciò al suolo del palazzetto di Macerata durante il suo turno al servizio in una gara di Serie B2 tra la Yoga Forlì, in cui era andato a fare da chioccia a qualche giovane, e la Lube. Aveva 37 anni. “Quel giorno ero al palazzetto e vederlo perdere i sensi fu come una coltellata al cuore”, racconta Marco Bonitta, l’allenatore che per primo aveva creduto in lui e che due decenni più tardi ha lanciato anche Alessandro, il figlio maggiore di Vigor, che proprio qualche settimana fa ha esordito in Superlega con la maglia di Ravenna, come il papà. “Ricordo benissimo il giorno in cui Vigor arrivò in Romagna, ancora sedicenne. Dal pullmino della società uscì un ragazzo alto 2 metri, magro, con le spalle larghe e i capelli ricci”. Che, scoprì qualche mese più tardi, non amava particolarmente la scuola. “Era iscritto a ragioneria – racconta ancora Bonitta – ma, a metà ottobre, il dirigente responsabile di quel settore giovanile ricevette una telefonata dalla segreteria: ‘Potete mandarci per favore una foto di Vigor Bovolenta? Almeno per riconoscerlo, se un giorno decidesse di presentarsi’. Da quel momento in poi, cominciò davvero ad andarci”. Agli allenamenti, però, non mancava mai, amava troppo la pallavolo: “Al terzo anno con il gruppo giovanile – prosegue il tecnico – la prima squadra cominciò a ‘rubarcelo’ perché era davvero forte. Ho perso il conto dei titoli giovanili che ha vinto, prima di spiccare il volo”. Tra questi, l’Europeo juniores 1992 da capitano. Vent’anni più tardi, ad agosto 2012, cinque mesi dopo la sua morte e in Polonia come allora, gli azzurrini sono ancora in finale. In panchina c’è Bonitta che, per tutta la preparazione e tutto il torneo, aveva appeso in palestra un cartellone con il numero 16 disegnato. “Questo era il numero di un ragazzo come voi che guidò un gruppo come il vostro alla vittoria europea. Noi siamo chiamati a onorarlo”, disse più o meno alla squadra. “Mi vengono ancora i brividi a pensare che il punto che ci consegnò il torneo lo mise a segno Andrea Mattei, un centrale come Bovo. Con il numero 16 come Bovo. Perché, diciamocela tutta, Bovo è ancora qui, non se n’è mai andato”.
Questo, d’altronde, è il pensiero che accomuna tutti coloro che lo hanno vissuto. A cominciare da Samuele Papi, uno dei giganti (e la statura non c’entra) della pallavolo di casa nostra. Quasi coetanei e compagni di stanza in quella nazionale di Velasco che dopo verrà ricordata come Generazione di fenomeni, i due erano pappa e ciccia, con Hristo Zlatanov a completare il terzetto. “Siamo cresciuti insieme – racconta Papi – e siamo diventati amici veri. Perché Vigor ti entrava dentro e andavi a cercarlo per attingere alla sua positività. Amava la vita e voleva vivere ogni giorno a mille all’ora. Si possono contare sulle dita di una mano le volte in cui l’ho visto triste. Era il compagno che chiunque avrebbe voluto avere, sempre pronto a tirare su il morale della squadra quando le cose non andavano per il meglio e a sparare cavolate senza soluzione di continuità nei momenti più sereni”. E senza timore reverenziale nei confronti dei più grandi. “Ma sempre con grande rispetto. Prendevamo in giro Zorro (Zorzi, ndr) per le sue mani gigantesche e poi lui veniva in stanza e ci ribaltava – ricorda ridendo – e si preoccupava quando io e Zlaty inventavamo storie assurde per fargli uno scherzo. Poi, però, trovava sempre il modo per vendicarsi”.
Un capitano e un leader vero, “ma anche un punto di riferimento per un ragazzo più giovane come me che vedeva in lui il faro a cui tendere” racconta Savani che, a pochi mesi dalla sua morte e in barba ai rigidissimi protocolli olimpici, riuscì a nascondere sotto la tuta e portare sul podio di Londra 2012 la maglia numero 16. “Era stata un’Olimpiade particolarmente complicata – ricorda il capitano di quella squadra – e prima della finale per il bronzo, nello spogliatoio, Mauro Berruto, che era famoso per i suoi discorsi motivazionali, era stranamente silenzioso. Poco prima di entrare in campo, però, aprì lo zaino e tirò fuori la maglia di Bovo. Fu la nostra forza in quella partita e, come avevo promesso prima dell’Olimpiade a Federica (la moglie di Vigor, ndr), se fossimo saliti sul podio, avrei portato Bovo con noi”.
Ora quel cognome è tornato in Superlega grazie ad Alessandro che, il 24 marzo 2012, non aveva ancora compiuto 8 anni. “Quando l’ho visto entrare in campo, mi è sembrato di rivedere Vigor – racconta Papi – ed è stata una sensazione meravigliosa. Fede ha fatto dal primo momento un gran lavoro con i ragazzi (Alessandro ha un fratello e tre sorelle più piccoli, ndr)”. Ma, ammonisce Bonitta: “Per favore non chiamatelo Bovo jr. Lui è Alessandro e avrà una storia tutta sua da raccontare. Ugualmente bellissima”.