il foglio sportivo
Le Final Four della Ncaa hanno il sangue blu
Duke, North Carolina, Kansas e Villanova si giocano il titolo del basket collegiale americano. E c'è anche l’azzurro Banchero contro il figlio di McAdoo
Prima regola di una buona sceneggiatura: evitare l’addensamento ravvicinato di scene forti. Troppo incredibile, troppo drammatico, troppo rischioso, perché nel temporale rotolante di parole e opere si corre il pericolo di dimenticare momenti intensi e di perdersi il complesso della trama. Regola palesemente dimenticata da chi, in qualche parte dell’universo, ha scritto le Final Four 2022, ossia semifinali e finali del torneo universitario. Primo effetto speciale: le quattro sopravvissute al mese di delirio, alla March Madness che è partita con 68 squadre, sono Duke, North Carolina, Kansas e Villanova. Le cosiddette blue blood, il sangue blu del basket di college, e oltretutto col blu come colore principale, anche se con sfumature e decori diversi. Secondo un calcolo della Cbs, che dal 1981 ha l’esclusiva del Torneo, mai prima d’ora c’era stata una concentrazione più titolata di squadre, nemmeno nel 1975 perché all’epoca tra Ucla, Kentucky, Louisville e Syracuse solo le prime due erano legittimamente delle corazzate con tanti successi alle spalle, addirittura 10 in 12 anni per Ucla tra 1964 e 1975. Tutte e quattro le semifinaliste hanno vinto almeno un campionato dal 2008, e tra quell’anno e il 2018 sono sette quelli vinti, in totale.
Secondo colpo: Duke e North Carolina, 11 trionfi in due, sono le rivali più accese del panorama universitario, anche per i soli 15 chilometri che dividono i due campus, ma non si erano mai affrontate al Torneo prima di oggi; in più, potrebbe essere l’ultima partita sulla panchina di Duke, i Blue Devils, del settantacinquenne Mike Krzyzewski, dopo 42 stagioni e cinque vittorie assolute, a cui vanno aggiunti tre ori olimpici, peraltro annacquati dall’enigmatica esperienza ai Mondiali del 2006, chiusa con una medaglia di bronzo dopo la sorprendente sconfitta in semifinale contro la Grecia. Origini polacche, giocatore e allievo di Bob Knight ad Army, quindi la squadra dell’esercito, in cui arrivò al grado di capitano, Krzyzewski per cinque volte ha avuto offerte importanti da squadre Nba, preferendo però sempre restare a Duke dove un coach con la sua presenza e la sua reputazione poteva sostanzialmente fare quello che voleva. Il suo dirimpettaio, Hubert Davis, 51 anni, è invece alla stagione di debutto in panchina, ma ha pedigree che fa girare la testa, un albero genealogico che va dritto alle origini di questo sport: suo coach a North Carolina fu il grande Dean Smith, che alla University of Kansas era stato allenato da Phog Allen, il quale aveva imparato il basket direttamente dal suo inventore, James Naismith, in una versione verticale dei sei, anzi quattro, gradi di separazione che però non sembrano aver aggiunto peso sulle spalle di Davis, che alle spalle ha una dignitosa carriera da professionista Nba e nove stagioni da assistente allenatore proprio a North Carolina, college dove se ti giri cozzi contro qualcuno che ha fatto la storia del basket o perlomeno della squadra. Solo uno dei sei componenti dello staff di Davis non è stato giocatore, Eric Hoots, che però a suo tempo era stato responsabile organizzativo sotto il coach Roy Williams, coach plurivincitore che sarà ovviamente alla partita.
Troppa grazia, San Antonio, anzi New Orleans, sede per la sesta volta, e già questo però è un eccesso di copione che capita a fagiolo: in questo fine settimana infatti cadono i quarant’anni dalla Final Four che, nello stesso impianto, il Superdome, svelò al mondo il nome di un ragazzo magro, con il numero 23, che con un tiro a 17” dalla fine diede la prima vittoria proprio a Dean Smith. Noto a molti ancora come Mike Jordan, dopo quel canestro fu per tutti Michael Jordan e il resto della sua carriera lo ha scritto in una moltitudine di maniere. Jordan sarà quasi sicuramente presente a New Orleans per la semifinale, e potrà sfogarsi nel tifo per North Carolina senza inimicarsi eventuali tifosi degli Charlotte Hornets, la squadra di cui è proprietario, che magari siano dalle parte di Duke: perché se c’è un ambito nel quale l’americano medio è autorizzato a perdere il controllo senza condanna sociale è proprio nel tifo per la sua ex università, la sua alma mater, equivalente statunitense della famiglia in una società patriarcale. Guai a toccarla, e così sia oggi sia lunedì sera, in occasione della finale, quando come sempre la Nba ha evitato di programmare partite, sulle tribune saranno tantissimi i grandi nomi dello sport che interverranno per dare il loro sostegno, preceduto da cene, cocktail e tutti quei fenomeni di socializzazione circoscritta nei quali sarà possibile sfoggiare lo status raggiunto. È chiaro però che la presenza di Duke, addirittura da favorita, è un tema irresistibile anche per chi preferisca North Carolina: non era per nulla scontato che l’ultima stagione di Krzyzewski, da sempre “Coach K” per risparmiare giornalisti e tifosi dal doverne pronunciare e soprattutto scrivere il cognome, culminasse con l’arrivo alla Final Four, e in più il miglior realizzatore della squadra è una matricola, cioè un giocatore al debutto, Paolo Banchero, ala di circa 2,08. Sì, appunto: italiano di passaporto (ottenuto due anni fa) e di sangue, nato dal matrimonio tra Mario e Rhonda Smith, ex professionista, famiglia originaria di Moretta, nel cuneese, arrivata nella zona di Seattle ai primi del Novecento e lì sempre rimasta. Probabile un debutto con la nazionale entro l’anno, ma intanto Paolo deve inserirsi nella lunghissima lista di giocatori che hanno portato Duke al titolo nazionale.
Sarà la seconda presenza importante di un giocatore italiano a una Final Four nel giro di tre edizioni: nel 2019, nella finale persa dalla sua Texas Tech contro Virginia dopo un tempo supplementare, l’attuale guardia dell’Olimpia (in prestito alla Libertas Pesaro) Davide Moretti aveva giocato 40’, partendo titolare e risultando secondo miglior marcatore con 15 punti. Come avversario, Banchero avrà, almeno nominalmente, un altro italiano di sangue: Ryan McAdoo, arrivato all’ultimo anno di università, figlio del grande Bob e della seconda moglie Patrizia, romagnola conosciuta da Bob nel suo percorso italiano, caratterizzato soprattutto per i due scudetti e le due Coppe dei Campioni vinte tra il 1987 e il 1989 con Olimpia Milano. Bob fu giocatore di Dean Smith per un anno e dunque il sangue blu fa valere la sua legge anche con Ryan, che peraltro dal padre non ha preso quasi nulla, visto che finora ha giocato solo 14 minuti totali e probabilmente nemmeno metterà piede in campo. Dalla panchina, però, avrà un vantaggio rispetto a tre quarti degli spettatori del Superdome: vedrà benissimo