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Contro la Juventus Simone Inzaghi ha la chance per ribaltare il campionato

Giuseppe Pastore

Oltre lo scudetto c’è di più: idee, sogni, fantasmi dell'Inter che incontra la Juve. Da cosa si può misurare la leadership del tecnico  

Uno spettro si aggira per la Pinetina: è lo spettro dell’inadeguatezza, uno dei mali universali di questa epoca. I sintomi dell’inadeguatezza di Simone Inzaghi sono tutt’altro che sottocutanei: si manifestano in modo spettacolare, una specie di fiumiciattolo che affiora a ogni partita e intervista. Diciamola tutta, spietati come il bambino della favola di Andersen che urla che il re è nudo, ruvidi come sanno essere solo i tifosi delusi che si sorprendono a rimpiangere l’ex che li ha mollati in malo modo, una notte di inizio estate, e sospirano: ah, questi punti contro Milan/Sassuolo/Fiorentina con Conte non li avremmo mai persi. Il copione dell’Inter non cambia mai; anzi, quando cambia, cambia in peggio. L’allenatore “non incide”. Una sindrome d’inadeguatezza in piena regola, in tre atti: l’iniziale illusione che le cose possano andare anche meglio (autunno), il primo scossone che preoccupa perché non sappiamo immaginarci “il dopo” (gennaio-febbraio), la dolorosa presa di coscienza (marzo) che “l’amore che strappa i capelli è perduto ormai, non resta che qualche svogliata carezza”.

Negli ultimi cinquanta giorni di Inter, che hanno prodotto sette punti in sette giornate e una sola vittoria contro la Salernitana, ci sono più stecche di un rapper senza autotune. Il Diavolo (non solo come metafora) è nei dettagli. Uno slo-mo trasmesso dopo il secondo gol di Giroud nel derby mostra Barella che torna a centrocampo a testa bassa, colto in un genuino sbuffo di frustrazione (verso il portiere, oggettivamente colpevole?). Nell’ultima partita contro la Fiorentina, a un certo punto Skriniar e D’Ambrosio sono arretrati fin sulla linea di porta per restringere lo specchio della porta a Saponara, come se non si fidassero più del loro capitano, una volta insuperabile. Da Handanovic i piccoli segnali di scollamento si sono propagati per tutta la rosa, spaccata a metà tra gli spremuti titolarissimi (l’esempio di Barella è fin troppo evidente, come constatato anche in Nazionale) e le riserve che non giocano mai, si lamentano più o meno rumorosamente (vedi Vidal, che alla sua età non ha troppi peli sulla lingua) e quando vengono riesumate sembrano sempre corpi estranei. Inzaghi si è illuso di poter navigare seguendo il suo solito (e solido) canovaccio, ma i cambi sono diventati scontati, leggibili da ogni allenatore: attorno al 65' toglierà uno o due ammoniti, cambierà una punta, avvicenderà gli esterni. 

Qui casca Simone Inzaghi. Alcune scelte estemporanee e forzate (come il doppio cambio di Dzeko e Lautaro contro la Fiorentina) fanno a pugni con la sua indole da allenatore, basata più sulla regolarità che sullo strappo nervoso. Ben diversa dall’indole dell’interista, abituato a esaltarsi nei finali di gara, ad andare in estasi per l’impresa disperata e ancora di più per chi la ricerca: per questo ama i condottieri dalla parvenza dittatoriale (da Mourinho a Conte, ma potremmo tornare indietro fino a Herrera) che però, nei loro momenti più ispirati, riescono a spostare le montagne. Per questo è piaciuta poco anche la prudenza fuori tempo massimo di Liverpool, dove Inzaghi ha pensato più a salvare le gambe per il campionato che a un ultimo disperato assalto in 10 contro 11.

Inzaghi è incompatibile con l’ambiente Inter? Certamente non riesce a dare risposte convincenti, né all'esterno né all’interno, nonostante le sollecitazioni sempre più robuste di Marotta, intervenuto almeno due volte col bastone dopo aver ravvisato un eccesso di carota dell’incerto Simone verso i numerosi balcanici, olandesi e sudamericani, alcuni dei quali sopra la trentina: popoli che sanno essere spigolosi, affatto collaborativi, se qualcosa non gli torna. Certamente non è molto fortunato, visto che il tracollo invernale è coinciso con l’impennata del Milan). È un emiliano di buon genio che fino all’anno scorso non si era mai spostato dal tran tran romano-centrico della Lazio lotitiana, ambiente che favorisce l’accumulo seriale di alibi. Non ha la fortuna di appartenere alla stirpe dei Mancini, coloro che cadono in piedi a qualunque altezza si trovi il cornicione da cui sono precipitati. È ordinario anche nel vittimismo, nemmeno quando si lamenta riesce a essere barocco come un Conte o un Mazzarri. Non è simpatico né antipatico, non ama gli slogan, non è megalomane né possiede i modi bruschi che in quest’epoca fanno curriculum molto più di tre Supercoppe Italiane. È più un quadro aziendale,  incapace di slanci visionari ma perfettamente in grado di far andare una macchina efficiente e ubbidiente. L’Inter non lo è più da quel maledetto derby che ricorre ormai da due mesi in tutte le interviste, da quei cinque minuti che hanno ribaltato la stagione e hanno insinuato nei vecchi lupi dello spogliatoio il sospetto che questo Inzaghi, insomma... Come l’Italia contro la Macedonia, l’amarezza e il rimpianto ingigantiscono frammenti risibili eppure a loro modo fatali: perché ha tolto Perisic, il migliore in campo? C'era bisogno di togliere Calhanoglu solo perché era già ammonito? Perché ci spegniamo sempre nei finali? Il dubbio diventa malumore, lo sbuffo lamentela.

La Juventus è un avversario che Inzaghi gradisce particolarmente: più volte ci si è chiesti se non avesse il phisique du rôle per succedere ad Allegri (o Sarri, o Pirlo) invece che a Conte. La trasferta allo Stadium diventa perciò il viaggio della speranza. Partita paradossale: può essere incredibile scialuppa di salvataggio oppure affossare definitivamente una stagione che ha preso una brutta china. A primavera il calcio italiano si trasforma sempre in una galleria di episodi destrutturati, scomponibili come il tiramisù di uno chef stellato, e del resto il “vinca il migliore” è una filosofia che sta pesantemente sull’anima pure ad Allegri. La sosta e l’atto di dolore post-Macedonia avranno rimescolato le budella dei nostri bianconerazzurri, e dunque le carte? Con che testa giocheranno Bonucci e Chiellini, Bastoni e Barella, più o meno protagonisti della farsaccia palermitana alla Johnny Stecchino con tanto di banane e cannoli nello spogliatoio a soqquadro, ma anche eliminati minori come Sanchez, Vidal e Calhanoglu? Il calendario e i casi della vita offrono a Inzaghi una formidabile chance per invertire la rotta di 180 gradi: certamente, però, con soli tre giorni per prepararla, dovrà inventarsi qualcosa. E questo è il bello. E questo è il problema.

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