Il foglio sportivo
Quando lo sport conquista gli Oscar
Da Eastwood a Will Smith, le grandi storie nate in campo o sul ring che vincono anche al cinema
Dopo Federico Fellini e Martin Scorsese, Diego Armando Maradona. Lo scudetto del Napoli e Taxi Driver, e non c’è un migliore o un peggiore, niente sacro né profano, soltanto due modi diversi di spostare l’asticella un po’ più su. Sono venerati maestri anche loro, sudati marci dentro palestre sudicie, con un occhio nero, cattivi e invidiosi e vendicativi, esteticamente perfetti sia nel gesto atletico che nella sofferenza. Non c’è niente di più epico e di più simile ai guerrieri antichi dei campioni contemporanei pronti all’azione. Niente stressa il corpo più dello sport, che concentra tutto ciò che un essere umano può provare in poco tempo e poco spazio. Adrenalina, paura, esaltazione, baratro, lacrime di gioia o di dolore. Tutto al quadrato. E tutti noi, fuori a guardare, a provare compassione, empatia.
“La gente muore ogni giorno, Frankie, mentre lucida il pavimento o lava i piatti, sai qual è il loro ultimo pensiero? ‘Non ho mai avuto una occasione’. Invece, grazie a te Maggie ce l’ha avuta e se morisse oggi sai quale sarebbe il suo ultimo pensiero? ‘Ho avuto l’occasione che volevo’”. Questo dice Scrap (Morgan Freeman) a Frankie (Clint Eastwood) in Million Dollar Baby, il film di Eastwood del 2005 vincitore di 4 premi Oscar. Lo sport regala occasioni, riscatto, restituisce senso alla rabbia, al rancore, restituisce senso alla miseria, ai nervi a pezzi, a madri che non sanno amare le proprie figlie, o che le amano di un amore sbagliato. “Almeno quando eri piccola mi volevi un po’ di bene?” chiede la pattinatrice statunintense Tonya Harding a sua madre. “Ti ho reso una campionessa, sapendo che mi avresti odiata. Questi sono i sacrifici che fa un madre”. Così le risponde LaVona nel film Tonya, che valse ad Allison Jalley il premio Oscar come migliore attrice non protagonista alla cerimonia del 2018.
Lo sport offre il materiale, il cinema aggiunge colonna sonora e montaggio. Film di sport? No, film e basta. Spesso da Oscar. Sono tante le vite di campioni e campionesse diventate una statuetta. Rocky Marciano, Jake LaMotta, Maggie Fitzgerald, la pugilessa di “Million Dollar Baby”, Muhammad Ali in “Quando eravamo re”, Jerry Maguire, il procuratore sportivo interpretato da Tom Cruise negli anni Novanta che un giorno dice a un suo giocatore: “Quando scendi in campo pensi solamente a quello che non hai avuto, di chi è la colpa, chi ha sbagliato il passaggio, chi ha il contratto che non hai tu, chi non ti ama come meriti… mi dispiace, ma non è questo che entusiasma le persone”.
L’ultima storia nata in campo e arrivata fino al red carpet di Hollywood è quella di Richard, Venus e Serena Williams, protagonisti di “King Richard. Una famiglia vincente” (disponibile al momento su Sky Prima Fila), film per il quale Will Smith ha vinto il premio Oscar come miglior attore protagonista. Prima dello schiaffo al comico Chris Rock, il presentatore degli Academy Awards, che dal palco aveva fatto una battuta sui capelli della moglie di Smith, Jada Pinkett, che da anni soffre di alopecia. “L’arte imita la vita”, ha detto Will Smith dopo lo schiaffo, durante il discorso in cui ha provato a scusarsi tirando in ballo anche Richard Williams: “Devo essere proprio sembrato un padre pazzo. Proprio come viene dipinto Richard Williams, un fiero difensore della sua famiglia”.
Ecco che lo sport esce dagli stadi e che Richard Williams/Will Smith ritorna prepotentemente, rubando un’altra volta la scena alle figlie, facendole vergognare di nuovo, a trent’anni di distanza dai fatti raccontati nel film. Ecco Will Smith che, nella miglior interpretazione possibile di Richard, provoca un imbarazzo antico per cui Serena non può fare altro che nascondersi la faccia dietro le mani, succube in eterno del padre e di quell’uomo sul palco che lo ricorda così tanto da meritarsi un premio, il più importante. Doveva essere un trionfo, la serata della gloria, non più soltanto sportiva ma addirittura cinematografica, l’Oscar come un torneo del Grande Slam, il tredicesimo Wimbledon, tutto in famiglia. Ancora una volta Richard, lontanissimo, ha rovinato tutto. “È lo spettacolo di Venus e nessuno è stato invitato”, aveva scritto Richard su un cartellone poi mostrato a tutto il Central Court di Londra subito dopo la vittoria ai Championships di sua figlia Venus, nel 2000. Anche allora il pubblico inglese era rimasto di ghiaccio, senza parole.
L’amore fa fare cose folli ha detto Will Smith continuando il suo discorso post schiaffo. Una sintesi perfetta della vita di Richard Williams che, dopo la nascita delle sue due figlie non ha mai più avuto nessun desiderio che non le riguardasse, lui che ha trascorso dieci anni della sua vita a non desiderare nient’altro che lanciare palline all’altezza giusta di due bambine. “Colpisci più forte, baby”, “d’accordo papà”. Amore folle. Il film lo spiega tutto questo amore che spesso somiglia a un atto di sottomissione, a un ricatto parentale, a una croce da portarsi dietro. “King Richard” racconta le 78 pagine da cui è partita la dinastia delle Williams e i loro 30 Slam divisi per due, i loro primi passi nel mondo del professionismo, la dedizione e l’ubbidienza di due bambine che non vogliono nient’altro che la felicità di chi le ha messe al mondo, anche se quella felicità non coincide con la loro. “Lo faccio per il vostro bene”.
Nessuno avrebbe potuto interpretare Richard Williams meglio di Will Smith, ma il vero colpo di teatro l’attore lo ha portato in scena nel momento del trionfo, quando, proprio come Richard Williams, ha tolto le parole di bocca alla donna della sua vita, parlando al posto suo, con la presunzione di aver fatto la cosa giusta, di averlo fatto per il suo bene, per il bene di lei. Questo atteggiamento è molto da Richard Williams, ma Richard Williams non ha mai tirato schiaffi in faccia a nessuno.