La Parigi-Roubaix di van Baarle è un racconto di Maigret
L'olandese della Ineos nel velodromo di Roubaix è entrato solo, scuotendo la testa incredulo. Dylan van Baarle era da un po' che attendeva di avere una grande possibilità, ha smesso di attendere. Al secondo posto è finito Wout van Aert
Quando il commissario riguardò le fotografie, facendo attenzione, per davvero e per la prima volta ai dettagli, scoprì che la soluzione del mistero ce l’aveva avuta sempre davanti agli occhi. Eppure non era riuscito a scovarla. Non subito almeno. Soprattutto non prima. Maigret si sentì colpevole di non essere riuscito a evitare almeno due omicidi. O meglio si sarebbe sentito colpevole se George Simenon questo racconto l’avesse scritto davvero. Ce l’aveva in mente, aveva appuntato gran parte del canovaccio, aveva scritto il finale e i primi capitoli. Poi si era fermato. Non era andato avanti. L’aveva lasciato incompiuto. E quando s’era sentito che i suoi giorni su questa terra stavano per finire, aveva scritto all’editore per informarlo di una sua volontà non negoziabile: quel suo racconto non sarebbe mai dovuto uscire perché certe cose è meglio farle rimanere nell’oblio. E questo perché Maigret non gli avrebbe mai perdonato di dover interpretare la parte del pigro distratto.
Capita di non prestare attenzione ad alcuni dettagli, soprattutto se non sono centrali nell’immagine. E se è capitato a Maigret, a maggior ragione può succedere agli altri. Soprattutto in un genere letterario confuso e non sempre prevedibile come il ciclismo. Soprattutto a certe latitudini e longitudini, soprattutto su certe strade, quelle che lasciano la praticità dell’asfalto per avventurarsi nell’equilibristica incertezza delle pietre.
Neppure Maigret avrebbe mai potuto immaginare e risolvere l’intricato mistero della Parigi-Roubaix. Né quello passato, né tanto meno quello andato in scena nel giorno di Pasqua dell’anno del Signore 2022.
Perché Dylan van Baarle, come l’assassino del romanzo mai uscito di Simenon, c’era in ogni foto, ma quasi mai aveva catturato l’attenzione. Si era tenuto sempre più o meno in disparte. E anche quando era entrato in quelle più importanti, quelle che ritraevano l’arrivo, era stato ignorato. Come nella prima domenica di aprile, quando aveva terminato il Giro delle Fiandre al secondo posto, dietro a Mathieu van der Poel, ma l’attenzione di tutti si era concentrata sul quarto, Tadej Pogacar, colui che per calcolo sbagliato si autoeliminò da quella fotografia senza biciclette che ritrae i tre migliori di giornata.
Eppure van Baarle c’era sempre.
A volte a lavorare per altri, per capitani che ogni tanto si perdevano e allora doveva lui mettere una pezza. A volte lavorava per sé e si ritrovava a un passo dalla felicità, senza mai riuscire ad afferrarla per davvero. Questione di tempo, diceva lui un po' sperandoci. Ma il tempo in questi anni di ciclismo frenetico sembrava scorrere più veloce che mai. E il suo sembrava potesse essere travolto.
Le pietre della Roubaix, al contrario di altre, però vivono di una dimensione propria, del tutto indifferente all’andazzo generale. La vita nelle campagne del Nord non è poi cambiata troppo. Si è velocizzata certo, meccanizzata pure, ma fluisce ancora con una calma più accentuata che altrove. Il pavé non perdona, è chiaro a tutti, ma sa anche aspettare, sa dare a chi gli vuol bene un’occasione in più. Basta accorgersene e non lasciarsela scappare.
Dylan van Baarle l’ha riconosciuta. E una volta riconosciuta s’è trasformato per trasformare in realtà ciò che sino ad allora si era sempre limitato a sognare.
Una trasformazione però va costruita. È mica come una metamorfosi che accade e basta. Lui ha gettato le basi di questa sulle pietre verso Bourghelles, l’ha resa possibile su quelle di Champin-en-Pévèle, l’ha resa reale sul Carrefour de l’Arbre, nella sala centrale e più luminosa di quel museo a cielo aperto che è la Parigi-Roubaix.
È lì che il commissario ha riconosciuto il colpevole. Ha capito che era davvero lui. Eppure anche in questo caso ce l’aveva avuto sempre davanti e da almeno sette stagioni a questa parte. Certo non lì, non verso Roubaix, ma altrove sì, e pochi chilometri appena a est, al di là del Lys, nei territori bagnati dalla Schelda: cinque volte tra i dieci nelle ultime sette edizioni del Giro delle Fiandre non ci si arriva per caso e per caso non si vince neppure una Dwars door Vlaanderen.
Dylan van Baarle prima di entrare per primo nel velodromo di Roubaix ha scosso più volte la testa. Ci credeva davvero neppure lui a quello che era successo. Fa sempre strano ritrovarsi in posizioni che non si considerano del tutto proprie. Fa ancora più strano ritrovarsi i riflettori addosso dopo anni nei quali si aveva al massimo interpretato la parte dell’ignorato di successo. Perché lì, prima di tutti e solo, gli olandesi (e non solo loro) si sarebbero immaginati sì di vedere un loro concittadino, ma attendevano Mathieu van der Poel, non certo lui. Eppure lui c’era sempre nelle fotografie. Sempre lì, ma in disparte.
Dylan van Baarle ha smesso di attendere. Si è tolto una pietra dal groppone per mettersela in mano e alzarla al cielo di Roubaix. Questa volta sotto gli occhi di tutti.