ll Philosophy Football Club in trasferta in Spagna. In una Plaza de Toros hanno organizzato un mondiale su tre porte (foto: Benedetta Mascalchi) 

Il pallone come filosofia di vita

Gregorio Sorgi

La storia del Philosophy Football Club che ha cambiato gli inglesi. Con Pasolini sulla maglia  

Cosa ci fanno un gruppo di musicisti, scrittori, avvocati e attori inglesi a San Basilio, piena periferia romana, indossando una maglietta nera con una massima di Pasolini: “Dopo la letteratura e il sesso, il calcio è uno dei grandi piaceri”? Forse non c’è frase migliore per descrivere l’animo del Philosophy Football Football Club (PFFC), una squadra-famiglia di ex ragazzi che oggi ricordano quei giorni con una punta di nostalgia. Siamo in un campo di Regent’s Park nella Londra dei primi anni Duemila, l’epoca della Cool Britannia. La città stava completando la sua metamorfosi da capitale britannica a capitale globale; la Premier League sarebbe diventata a breve la Super Lega che è oggi; e il premier Tony Blair era ancora la grande speranza dei progressisti di tutto il mondo. 

 

Questo è il contesto in cui nasce PFFC, l’unica squadra a mischiare calcio e filosofia. Sulle maglie da gioco erano iscritte le frasi di giocatori, allenatori e pensatori: Brian Clough, Jean Baudrillard, Antonio Gramsci, Steve Perryman... Ci è voluto l’arrivo di Filippo Ricci, un giornalista sportivo trasferitosi a Londra appena trentenne, per raccontare l’italianizzazione della Premier League, per temprare un manipolo di intellettuali britannici che non facevano altro che perdere.
  

 

 “Era una squadra molto filosofica, che non rispecchiava affatto i valori del calcio inglese: durezza, fisico, intensità”, ricorda Ricci, che oggi è il corrispondente della Gazzetta dello Sport dalla Spagna, e ha raccontato la storia di PFFC nel libro “Philosophy and Football” scritto assieme al fondatore e allenatore del club, Geoff Andrews. “Il mio arrivo dall’Italia ha fatto scoccare la scintilla, e... abbiamo iniziato a vincere. Il momento di svolta è stato un mio tuffo in area di rigore: l’arbitro ha lasciato correre e i giocatori avversari mi volevano picchiare. Quel gesto ha segnato una nuova mentalità: più astuta, più cinica. La squadra si è italianizzata”. Il culmine di questa storia è un altro tuffo in area di rigore, quello di Raheem Sterling nella semifinale degli Europei contro la Danimarca, che ha permesso all’Inghilterra di andare in finale contro l’Italia. La nazionale inglese si è italianizzata, e lo stesso è accaduto a PFFC. Questa squadra di amici è una grande metafora di come è cambiato un intero paese.

 

La Londra degli anni Duemila era un luogo molto diverso dalla città “povera e pre thatcheriana” che Ricci aveva visitato diciassette anni prima, in cui si viveva con due sterline al giorno e si faceva festa tutta la notte. “All’inizio del secolo la città stava diventando più glamour. Era già passata dalla birra al vino”. Eppure nei campi di quartiere si respirava ancora la vecchia atmosfera del calcio inglese, quella descritta da Nick Hornby nel romanzo “Febbre a 90º”. Finita la partita i giocatori non usavano il phon, uscivano dalla doccia con un piccolo asciugamano e dopo essersi rivestiti camminavano a piedi nudi nel fango. Per un corrispondente straniero appena arrivato a Londra non c’era modo migliore di capire l’indole britannica. Ma la cosa più sconvolgente, racconta Ricci, erano le pinte di birra tracannate a stomaco vuoto dai suoi compagni dopo aver corso per novanta minuti. “Erano dei barbari”. Con il passare del tempo si sono civilizzati. Il rito della birra è stato sostituito da una cena in un ristorante di tapas basco a Maida Vale che restava aperto fino a tardi. Qualcosa di impensabile nella città in cui erano abituati a sentirsi dire “the kitchen is closed”, la cucina è chiusa, un minuto dopo le nove e mezza di sera. 

 

“Questo è stato il segno di qualcosa di più profondo. L’Inghilterra stava cambiando, così come stava cambiando PFFC”, spiega Geoff Andrews, il deus ex machina della squadra che nella vita è un professore di storia e ha scritto vari libri anche sul berlusconismo in Italia. “Il nostro club era la dimostrazione di quanto fosse importante la contaminazione europea. Lo chiamo ‘l’europeismo di tutti i giorni’, che è stato trascurato dalla campagna del Remain e ha consentito ai brexiteers di descriverci come elitisti. Ma il calcio è la dimostrazione di come l’Europa ha migliorato la Gran Bretagna. Non dimentichiamo che non c’è ancora stato un allenatore inglese ad aver vinto la Premier League”. La politica era un argomento ricorrente nelle trasferte e nei pranzi pre partita. Il cuore della squadra batteva a sinistra ma, precisa Geoff Andrews, “eravamo inclusivi, non settari”. In squadra c’erano un paio di avvocati conservatori e, brevemente, è comparso anche Tim Allan, uno degli spin doctor di Tony Blair, che non era molto amato dai giocatori.

 

PFFC è un prodotto della sua epoca e, secondo Geoff Andrews, “non sarebbe esistita senza il clima degli anni Novanta”. Londra era diventata la meta di punta di chi cercava nuove opportunità. All’epoca gran parte delle società dilettantistiche erano squadre di quartiere o del dopo lavoro. Ma non PFFC. La regola era che due amici o colleghi non potevano giocare insieme, per evitare che si formassero dei gruppetti. La squadra era molto britannica, ma non c’erano giocatori nati e cresciuti a Londra. In un modo o nell’altro, erano tutti forestieri che hanno trovato nel club una nuova famiglia, oltre che un antidoto alla solitudine di una città ricca di opportunità ma dispersiva. Basta pensare che Ricci è arrivato a Londra a settembre, e tre mesi dopo era già a bere gin tonic a Roma con i suoi nuovi amici inglesi alla prima trasferta. La storia di PFFC è innanzitutto una storia di grandi amicizie, nate sul campo di Regent’s Park e coltivate nei viaggi in giro per l’Europa: Madrid, Zurigo, Lisbona, Parigi, Praga, Catania e Istanbul. Come spiega Ricci, il successo del club dipende da “un gallese che ama l’Italia (Geoff Andrews, ndr) e da un italiano che ama l’Inghilterra”. Ma entrambi gli autori concordano che la squadra non sarebbe potuta esistere ai tempi della Brexit – innanzitutto, per ragioni pratiche. Per molti giocatori sarebbe stato più difficile trasferirsi a Londra all’epoca del visto e del settled scheme, il permesso di soggiorno introdotto dopo l’uscita dall’Ue. Ma, soprattutto, il club si rispecchiava in un’identità europea, prima che britannica. “La fine della nostra squadra ha coinciso con la fine delle cose positive”, dice Geoff Andrews con una punta di nostalgia.

 

Già, la nostalgia. Per gli autori-protagonisti quanto è stato malinconico riesumare i diari impolverati degli anni d’oro, e ricordare un periodo in cui erano più giovani e in cui tutto sembrava più bello? Ricci la prende con filosofia. “Londra non è una città per vecchi, oggi non ho più l’età e farei una fatica bestiale a sostenere i ritmi di un tempo, quando il sabato andavo a ballare con mia moglie nei locali di Notting Hill dopo avere inviato il servizio sulla partita”. Poi il calcio spagnolo gli piace tanto, ha trovato una squadra anche a Madrid e, insomma, la vita va avanti. Meglio ricordare Londra per come era vent’anni fa. Eppure lo zoccolo duro del PFFC, oramai circa una quindicina di ultra cinquantenni, continua a far parte di un gruppo Whatsapp e occasionalmente si ritrova per una partita. Col passare del tempo si sono innamorati del calcio a tre porte, un misto tra sport, tattica e filosofia che, assicurano, deve essere provato. La prossima rimpatriata è prevista a Londra a inizio giugno, per la presentazione del loro libro-biografia. E sono già alla ricerca di una squadra da sfidare.

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