Foto Ansa

Imola per noi che amiamo la Ferrari

Cristiano Cavina

Quando ormai non ci credevamo più, arrivò Siumi a portarci a ballare alle Acque Minerali

Mi faceva specie che tutti i miei compagni di classe del Tecnico Alberghetti continuassero a crederci; cos’erano ormai? Quasi vent’anni? Tutti gli Ottanta erano stati un mezzo buco nero, poi con Berger e Alboreto, degnissime persone eh, ci mancherebbe altro, boh, avevamo tutti l’idea che se i nostri nonni avessero pitturato di rosso i loro tre ruote Apecar, avrebbero fatto di meglio. E dulcis in fundo, ma proprio in fundo che più fundo non si può, il Salvatore Prost si era fatto accompagnare fuori pista dal buon Senna all’ultima di campionato, rendendogli pan per focaccia, proprio quando la luce in fondo al tunnel sembrava lì, neanche a un passo, a tiro di naso. Eppure, continuavano a crederci, con quella innocenza e quella ignoranza rumorosa da Neanderthaliani intorno alla loro statuetta della Madre Terra. Che poi all’Itis Alberghetti si sentiva di più, perché la nostra scuola, vecchia come il cucco, pareva una di quelle case che hanno murata fuori la targhetta che lì ci ha dormito Ariosto, era a metà di corso Dante e in fondo alla strada, dopo la rotonda, c'era il ponte, e dopo il ponte: il rettilineo dei box.

 

Gli mancavano tante cose all’Alberghetti, ma un pregio assoluto ce l’aveva; era previsto un giorno di festa in più. Noi e quelli del tecnico Agrario, che addirittura al circuito di Imola c’erano praticamente dentro: il sabato delle prove, si stava a casa. Non potevi fare lezione. Arrivava puntuale la circolare del preside, che il bidello portava in palmi di mani come un’ambasciata del Gran Visir; lezioni sospese causa Gran premio di Formula 1. Quando le macchine sgasavano, vibravano i vetri delle aule. Buona che non si staccasse anche qualche sfogliata di intonaco dagli alti soffitti. Che poi, già il venerdì, a scuola non c’era nessuno, tranne le ragazze (quindi, nessuno; non c’erano ragazze all’Itis Alberghetti; 700 studenti, tutti maschi). Facevano tutti buco (marinavano, in francese) per andare a vedere le prove libere, che non so adesso, ma in quegli anni erano a gratis. 

 

E le prove libere, anche quelli che per darsi un tono da ribelli esotici tenevano per la Uilliams o per la Renò (ce n’era anche uno che teneva per la Tyrrel, ma un po’ tutti tenevamo anche per la Tyrrell, come si vuole bene a quella zia un po’ strana che non vedi quasi mai, perché eravamo stati tutti folgorati da quella a sei ruote che avevamo visto correre da piccoli); comunque, anche questi qui, ci andavano per una cosa sola: vedere la Ferari (se pronunciata bene, con passione, perde una erre, e suona come suonava in bocca a chi se l’è inventata e a chi se la sogna ancora).

 

Anche se continuava a non vincere, anche se dopo ogni gara evocava da te le peggiori parole, scomodando ogni singolo santo del calendario, non si poteva resistere: c’era la Ferari, chissà mai che stavolta... che l’ultima volta che aveva vinto, era dopo averne fatte due di fila – che suona un po’ come il resoconto in discoteca del solito patacca del bar – Pironì nell’82 e Tambè (Tambay, in fransuà) nell’83; poi più niente, nada, nothing; ci vinsero pure De Angelis sulla Lotus e Patrese sulla Uilliams, che erano italiani ma sulla macchina del colore sbagliato: ma in quell’inizio di anni Novanta, sembrava preistoria (ci pensò il buon vecchio Siumi, nel ‘99, a interrompere il digiuno, tutti i digiuni; non facevamo più l’Itis ma al podio vedemmo in televisione quella fiumana rossa e gialla che invadeva la pista, e dietro la torre, oltre gli alberi, sapevamo benissimo che Istituto Tecnico c’era, che bidello aveva portato la circolare e quali vetri delle aule avevano tremato; poco che ci pensavi, era come se avevamo vinto noi).

 

Foto Ansa  
  

Son dovuto diventare vecchio, per capire certe cose. Perché poi, per chi ci sta sotto, per chi abita lì a tiro di schioppo dal circuito (quando ci sono le gare si chiama circuito, quando ci suonano gli AC/DC o Vasco, si chiama Autodromo), è un po’ una roba particolare. A generazioni ci siamo andati letteralmente a ballare; quando in tutto il mondo sentono “Ecco Hamilton passare alle Acque Minerali”, per noi non è una fetta di percorso; noi ci pargheggiavamo la macchina, lì dietro al guard rail, perché c’era la discoteca; le Acque. Quando sentivo, per dire, “Irvine passa per primo alle Acque Minerali”, pensavo; è pomeriggio, è arrivato troppo presto, non ci sarà ancora nessuno, attaccano a suonare dopo le dieci. Dalla mia Casola, le persone andavano con le sedie in cima ai calanchi, che all’Enzo e Dino Ferrari ci danno le spalle, e stavano lì tutta la domenica senza vedere niente, ma a sentire il rumore dei motori, che rimbalzava nei canyon (ci sono i canyon nei calanchi, fidatevi; sembra di essere in un posto che da un momento all’altro esce fuori Trinità). C’erano quelli (tipo Manèla, tipo Cristò), che dal rumore capivano se la macchina filava via bene o se aveva problemi al carburatore; e sopratutto, sapevano come tuonava la Ferari (le macchine di Formula 1, tuonano; è tipo un ruggito di leone amplificato dal padreterno).

 

Io al Gp ci sono andato una volta sola, con la mia mamma; proprio lì a Imola, ma era settembre,  l’anno che Imola scippò Monza del Gran premio d’Italia (Imola diventò poi il Gran premio di San Marino, perché qua in Romagna, essendo signori, ospitiamo anche uno stato sovrano. Che è 800 anni più vecchio del nostro stato; quando facciamo le cose, ci piace farle grosse). Erano gli anni che, nella mia memoria, vinceva sempre Pichè (Piquet, per i latinisti), guidando un pacchetto di Camel. Ci andammo per la ragione per cui tutti ci andavano (e ovunque ci guardavano, in tv, o l’ascoltavano alla radiolina); per vedere Uilnèv (Villeneuve, per chi ha un cuore). Uilnèv, Villeneuve, è stato per me l’unico che ha fatto innamorare come il bagaglio rosso a quattro ruote che guidava. A mia mamma non le era mai importato niente delle macchine, e mai le importò dopo; ma Villeneuve, Sil, Gilles... quando morì pochi anni dopo, ce lo disse mia zia che eravamo andati a trovare; ce lo disse per le scale, ci aveva aperto il cancellino di sotto e si era affacciata al pianerottolo; e mia mamma impallidì e pianse: era la prima volta che la vedevo piangere per qualcuno che non era un familiare o un Papa.

 

Nell’Ottanta mi portò a Imola, era settembre, credo dovesse iniziare la scuola, ultimo giorno di vacanze mi sa (ma sarei passato dall’asilo alle elementari, e non avevo ancora l’angoscia, quella sarebbe arrivata ogni settembre da lì alla quinta superiore). Ci andammo con la sua Vespa 125 bianca, che usava per consegnare la posta. Non avevamo biglietti, ma non servivano neanche, la Formula 1 non si era ancora sceicchizzata, pass, biglietti, poltroncine, pay per viù; a parte dentisti, notai e artigiani che gli aveva detto bene, nessuno andava a vedere le macchine dagli spalti; girammo intorno al circuito per vedere se c’era un posto da cui guardare. L’umanità era aggrappata al muro di cinta. L’umanità. Erano tutti lì per vederli: la Ferari e Gilles, tutti felici; era come avere due morose: che non litigavano tra loro. Anzi. Gli unici nella legalità erano quelli del condominio sulla Tosa, che dal secondo piano in su guardavano il Gran prì dal balcone di casa (negli anni poi venne fuori la leggenda che lo affittassero a prezzi da palco Reale alla Scala). Molti erano in piedi sui sellini dei motori (motociclette, in italiano) o sulle capotte della macchina; alcuni si erano portati quattro tubi Innocenti coi morsetti, e avevano tirato su dei palchetti. Avevano i berrettini della Ferari. Non quelli ammericani, da baseball; no, avevano quelli quadrati con l’alettina a mezza luna di plastichetta da muratore, da imbianchino; rossi e gialli. Chissà dove li compravano; chissà chi li faceva i berrettini della Ferari nell’80, in quale officina, in quale retrobottega, altro che Amazon e le fabbriche a Shangai. Vedemmo passare Uilnèv, Villeneuve, l’amato Gilles, a turno, io e mia mamma, da un buco nel muro largo un mattone, in piedi su una cassetta di frutta, grazie a un pensionato di Imola. Mamma il primo giro, io il secondo. Villeneuve poi forò, si ritirò al quinto. Un ruggito di leone amplificato dal padreterno, che grattava un po’, una macchia rossa; quella macchia, quel rosso, così potente che tutti da piccoli pensavamo bastasse per fare di ogni macchina una Ferrari, anche la 128 Sport L del vicino di casa. E appese lungo il muro, sopra le teste dell’umanità arrampicata, avvinghiata, senza biglietto, perdutamente innamorata nonostante il colera e le sconfitte di ‘sto mondo,  le bandiere, stampate chissà come o chissà dove o disegnate a mano; con lo scudetto giallo e il Cavallino rampante (non cavallo; cavallino; furbo e tignoso); lo stemma di Baracca Francesco da Lugo di Romagna, insuperato asso dell’aviazione, 34 vittorie su 60 combattimenti aerei, caduto in azione nel 18 sul Montello: due baffetti dritti e sottili a cui non ti conveniva dare le spalle: che anni dopo la sua povera mamma lo consegnò a un 24 enne di Modena, dicendogli “Metta bene il Cavalino di mio figlio su queste sue macchine, e vedrà come ci porta bene .

 

Diobò se gli ha portato bene; ha sempre rampato, rampava anche negli anni bui, rampa ancora ch'è una meraviglia, su tutto quel rosso.

Di più su questi argomenti: