Il Foglio sportivo - il ritratto di Bonanza
L'Atalanta del Gasp, una splendida illusione
La squadra bergamasca sembra essere arrivata alla fine di un ciclo, ma quello che ci ha lasciato va oltre i trofei o le vittorie: Davide può battere Golia (anche nella realtà)
Molti teorici della perfezione – tipo il guru con i Ray-Ban che ogni volta si affretta a ripetere una frase priva di ogni significato, “bisogna giocare bene” – all’inizio non capivano. Che razza di squadra è questa che si mette in campo storta, senza precise posizioni offensive e soprattutto, orrore!, ti marca a uomo in ogni zona del campo? Dove vuole andare questo allenatore con la testa metallizzata piena di pensieri strani, come quello di schierare realmente tre difensori davanti al portiere (a volte due), lasciando il resto della squadra a correre come un branco di cavalli selvaggi nella prateria?
Le risposte le ha date il tempo, circa sei anni, nel quale l’Atalanta di Giampiero Gasperini ci ha fatto divertire con un calcio diverso rispetto a quello ormai noiosissimo delle tre linee: difesa, centrocampo e attacco. Con un principio di gioco tendente al coraggioso, i bergamaschi hanno messo in discussione l’ormai trentennale attitudine dei nostri allenatori a influenzare così tanto i giocatori con la tattica da trasformare il campo e ogni partita in una palude. Dispiace solo che, tanto sforzo, l’abbrivio di una rivoluzione, non abbia prodotto una vittoria finale. L’Atalanta è uscita dalle coppe, il suo giardino, e in campionato fa gruppo con le altre, nel medio. Che cosa è successo, perché un calcio così semplice ma ingegnoso, così poetico ma prosaico, così sofisticato ma operaio, ha partecipato a tutto con onore, senza però portare a casa un trofeo? La domanda è un fiume di parole senza sbocco. Non è importante parlare di coppe o di medaglie, di bacheche rimaste desolatamente vuote ma sottolineare l’influenza culturale ed emotiva dell’unicità dei bergamaschi. E lo scriviamo adesso, nel momento in cui qualcuno sta parlando di fine di un ciclo.
L’Atalanta, a prescindere dai risultati, ha potenziato un pensiero altrimenti debole: quello del piccolo che demolisce il grande. E quando è nata l’inappropriata idea della Superlega, quella che rubava ai poveri per dare ai ricchi, il nostro Robin Hood ci ha difeso con le frecce di Zapata, Ilicic, Muriel e compagnia. L’Atalanta ha fatto paura, nella foresta di Sherwood, a tutti i grandi d’Italia e d’Europa, convincendoci di un fatto con il quale siamo nati e cresciuti, e cioè che nello sport conta quello che fai e non quello che sei. E adesso, di quello che ha fatto l’Atalanta ci resta un ricordo molto alto, sentimentale, qualcosa di simile ad un abbraccio. Nel quale ci siamo lasciati cullare, illudendoci di essere tutti campioni, di diventare un giorno belli e vincenti. Se questa è stata solo una illusione, poco importa. Anche la vita lo è.