il foglio sportivo
Un Pallone d'Oro tra la guerra in Ucraina
Igor Belanov a Odessa tra i ricordi e le bombe: “Per me quello che sta accadendo è incredibile. Non ho ancora realizzato gli eventi di queste settimane. È tutto assurdo. Ma non me ne vado”
Nel quartiere Moldavanka si rischiava la vita. Quando Igor Belanov si abbandona ai ricordi d’infanzia, l’immagine del vecchio quartiere infestato di banditi risulta persino rassicurante, visti i tempi che corrono. “Il calcio mi ha salvato – ammette –, ho perso mio padre quando avevo otto anni, mia madre all’inizio mi fece entrare in una specie di orfanatrofio, se mi avesse lasciato libero sarei diventato un delinquente”.
Moldavanka è il quadrilatero popolare incastrato alle spalle del porto di Odessa, la perla del Mar Nero. Gli ucraini sostengono che se osservi il sole arrampicarsi sull’orizzonte, poi guardare un’alba qualsiasi, altrove, non avrà più alcun senso. Deve essere vero, considerato che Eduardo Di Capua compose O’ Sole Mio con lo sguardo puntato sul Mar Nero, proprio a Odessa. Chiudeva gli occhi e s’immaginava il Vesuvio. Adesso gli occhi vanno tenuti aperti perché oltre l’orizzonte ci sono le navi russe pronte a far fuoco.
“Credo che se avessi potuto scegliere – confessa Igor – avrei giocato nel Napoli. Comunque in Spagna o in Italia. Luoghi pieni di sole e gente che sorride. Noi ucraini del sud siamo gente fatta così”. Igor Belanov, anni 61, è nella storia uno dei tre campioni assurti al titolo di “Leggenda del calcio ucraino”.
Assieme a lui solo Oleg Blockhin e Vitaliy Starukhin. Andri Shvechenko, per capirci, non è ritenuto ugualmente meritevole. Il suo nome si era impresso nell’immaginario planetario nell’estate del 1986 quando dopo aver vinto la Coppa del Coppe con la Dinamo Kyiv, segnò quattro reti al Mondiale messicano, quello di Diego Maradona e la sua mano di dio. Quando a fine stagione gli consegnarono il Pallone d’Oro (superò persino Gary Lineker capocannoniere in Messico), la propaganda sovietica lo trasformò in un’icona ambulante.
Ancora oggi, con l’Unione Sovietica dissolta da storia e rancori, Belanov continua col suo impiego da pendolare dello spirito, trasportando il suo Pallone d’Oro non più ai raduni di Partito, quanto lungo le trincee ucraine o negli ospedali dai feriti in battaglia. Col suo sorriso mite, stringendo tra le mani quella pesante reliquia dorata, impartisce lezioni di speranza a quelli che cominciano e vederla scarseggiare. In fondo basta pensarci per un istante: Belanov che vince il Pallone d’Oro al posto di Maradona, non è forse un miracolo?
In verità no, è solo che nel 1986 il Pallone d’Oro era riservato esclusivamente a giocatori europei, una regola modificata nel 1995. Ma quella sfera luccicante è storia talmente bella che non val la pena rovinarla con la verità. Belanov che vince il trofeo l’anno in cui Maradona si rivela al mondo per la sua immensità. Può bastare.
“Avevo incontrato Maradona proprio nel 1986 – ricorda Igor – avevamo scherzato su quel Pallone d’Oro da cui lui era affascinato. Gli dissi di non toccarlo. Lui aveva vinto il Mondiale e il trofeo di miglior giocatore in Messico. Cosa vuoi di più?, gli chiesi. Gli dissi che si doveva accontentare”.
I ricordi si affollano nella mente di Belanov che ci tiene a puntualizzare “Non ho mai considerato quel Pallone d’Oro come un successo personale. Forse se lo avesse vinto Maradona, sarebbe stato soltanto suo. Ma nel mio caso era davvero un successo di squadra. Quella Dinamo Kyiv era un’esperienza collettiva, quel premio potevi assegnarlo a uno qualsiasi dei titolari. Avevamo difensori formidabili, senza i quali io non avrei potuto giocare con tanta libertà. C’erano Kutzenzov o Demyanenko, fortissimi, ma si sa che certi premi vanno più facilmente a chi fa i gol. In avanti c’erano anche Zavarov e Blockhin. Eravamo pieni di talento. Io sono stato solo più fortunato degli altri”.
Tra gli “altri” sono inclusi parecchi compagni di squadra russi. Amici fino al 23 febbraio del 2022. Belanov prova a scherzare: “Ma i giocatori veramente forti di quell’Unione Sovietica erano comunque gli ucraini…”. L’ironia è però annientata subito dalla nostalgia.
“Mi mancano i miei compagni di squadra, mi manca quella goliardia e la solidarietà tra noi. Sentivamo il peso della responsabilità, rappresentavo una grande nazione, ci aiutavamo a vicenda. All’estero in quegli anni difficili, tutti pensavamo che fossimo un po’ tristi. In verità ci divertivamo tantissimo. E quello spirito di gruppo serviva a vincere e a dare spettacolo”.
Dallo scoppio del conflitto non ha più parlato con nessuno degli ex compagni russi. Nessuno si è fatto vivo.
“Per me quello che sta accadendo è incredibile. Non ho ancora realizzato gli eventi di queste settimane. È tutto assurdo. Non riesco a capirlo. Fino a pochi mesi fa venivo invitato in Russia a mostrare il mio Pallone d’Oro. Ho avuto un sacco di contatti con Sergei Shoigu, che avevo conosciuto ai tempi dell’Unione Sovietica e che oggi è il Ministro della Difesa in Russia. Non ho parole. Sempre così gentile con me. Adesso comanda gli attacchi sulla nostra gente. Se potessi parlargli oggi? Beh, l’unica cosa che mi verrebbe da chiedere è se sono andati tutti fuori di testa”.
Belanov soffre, ma come la maggioranza dei suoi connazionali, lo fa con laboriosa dignità. Incontrare feriti o anche bambini rimasti orfani, è la sua missione. È questo il suo ruolo operativo dentro a una squadra formidabile di nome Ucraina, in cui le fioriste si trasformano in infermiere al fronte, radiologi e impiegati imparano a maneggiare fucili di precisione.
“Stiamo vivendo una follia collettiva. Quando ho sentito Putin che ci accusava di essere nazisti, pensavo a un orribile scherzo. Ma com’è possibile? Noi non siamo così. L’unica consolazione è che il resto del mondo ci sta conoscendo, sta capendo che siamo gente amichevole e pacifica. Non siamo noi ad aver voluto questa guerra”.
Il calcio di oggi lo appassiona ma non lo incanta. “Non ci sono più giocatori capaci di coniugare velocità, potenza e grande qualità. Adesso quel che conta è soprattutto la forza fisica, ci sono giocate che facevo io che oggi non rivedo in nessuno. Ovviamente non parlo di gente come Cristiano Ronaldo o Messi, fuoriclasse assoluti, anche se l’ultimo Messi mi fa sorridere. Passeggia per il campo, immagino pensi all’ingaggio… Ma sono cambiati i tempi, le strategie. Io ero uno che divorava lo spazio, in quegli anni i difensori avevano iniziato a giocare in linea, per una squadra organizzata come la Dinamo era uno spasso. Con gli accorgimenti giusti, avevo spazio da mangiare a ogni partita. Era difficile controllarmi. Con un’unica eccezione: Franco Baresi. Era un cane da guardia spietato. Uno straordinario cane da guardia, quando credevi di averlo neutralizzato, te lo ritrovavi tre metri davanti”.
Per ogni vincitore di Pallone d’Oro si sono aperti i cancelli della gloria. E anche le borse con i contanti. Belanov si fa una bella risata: “Ma anche me l’Unione Sovietica pagò un sacco di soldi…”.
Poi si fa serio, il tono di voce asseconda un principio di rimpianto: “La possibilità di giocare all’estero non ha nulla a che vedere col denaro. Per me contava il desiderio di provare un calcio diverso, nuove sfide. Ma non eravamo noi a decidere del nostro destino. A un certo punto mi aveva cercato l’Atalanta, ma poi non se ne fece nulla. Altri scelsero al mio posto. Quando finalmente potevamo espatriare, era troppo tardi. Ero fisicamente in fase calante. Giocare in una squadra pericolante in Germania non cambiava nulla alla mia carriera. Fatta questa premessa le assicuro che sono felice della mia carriera, delle tante esperienze che ho fatto, di quello che ho vinto”.
Igor Belanov classe 1960, sfugge alla legge speciale della guerra, quella che impedisce ai maschi di età compresa tra i 18 e i 60 anni di lasciare il paese. L’idea di andarsene non lo ha mai sfiorato. Al termine del prossimo allarme anti-aereo che risuona in città, si rimette in marcia.
Lo aspettano dentro a una scuola bombardata vicino al fronte di Mykolaiyv. “Dal 2014, da quando i russi hanno preso la Crimea, almeno psicologicamente ci siamo preparati. La realtà è sempre più brutale rispetto alle attese, ma in qualche modo oggi sappiamo come comportarci, senza bisogno di dovercelo dire. Il mio posto è qui, finché la guerra non finirà. La vinceremo grazie al collettivo, come sempre”.