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il foglio sportivo

Ancelotti è davvero  il miglior allenatore del mondo?

Giuseppe Pastore

Gli basta un punto per diventare il primo ad aver vinto in Italia, Inghilterra, Germania, Francia e Spagna

Tra qualche ora Carlo Ancelotti entrerà nella leggenda del calcio. Gli basterà un punto, da ottenere contro l’Espanyol, per diventare il primo allenatore della storia ad aver vinto tutti e cinque i principali campionati europei: Serie A (Milan 2004), Premier League (Chelsea 2010), Ligue 1 (PSG 2013), Bundesliga (Bayern 2017) e appunto Liga. Già il poker equivaleva a un’impresa clamorosa, che lo proiettava scolpito su un ideale Rushmore calcistico insieme a Mourinho, Happel e Trapattoni, unici tecnici ad aver trionfato in quattro paesi diversi. La cinquina non ha precedenti e chissà se mai sarà eguagliata.

 

Così si ravviva il fuoco del dibattito su chi sia il più grande allenatore vivente e su chi lo sia stato in rapporto alla storia intera, discussione da bar potenzialmente infinita, alimentata anche dall'entusiasmante atto primo di martedì scorso tra Guardiola e Ancelotti. La critica conserverà sempre un angolo di cuore per Pep, uno dei tre profeti “insieme a Rinus Michels e Sacchi”, osserva spesso Fabio Caressa. “Arrigo è stato il primo a manipolare lo spazio nel terreno di gioco, mentre Pep ha fatto lo stesso con il tempo”. Per Paolo Condò, Guardiola è la trasposizione calcistica di una celebre sentenza di Bukowski in “Storie di ordinaria follia”: fare una cosa pericolosa con stile è ciò che io chiamo arte. “Guardiola ha applicato i propri princìpi ai massimi livelli di calcio e dovunque è andato ha cambiato per sempre la storia di quel club. È un fabbricante di universi che però ha bisogno di un mecenate che gli procuri i giocatori migliori per sviluppare la propria arte”. Invece nessuno ha mai usato la parola “arte” per riferirsi al lavoro di Carletto, né tantomeno si sognerebbe di farlo lui.

 

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Com’è noto, nei primi anni Ancelotti si è abbeverato volentieri alla fonte del sacchismo: su quella rigidità tattica fece vittime illustri – da Baggio a Zola – ma ha saputo fermarsi in tempo, capendo un bel giorno che il centro di qualunque discorso tecnico, tattico e psicologico non sono le idee, ma gli uomini. Così ha maturato una speranza via via sempre più incrollabile nell’essere umano, come la ragazzina Tracy che scalda il cuore di Woody Allen nella scena finale di “Manhattan”: bisogna avere un po’ di fiducia, sai, nella gente. Questa è la visione del mondo che gli fa spedire sul dischetto Benzema dopo due rigori sbagliati in dieci minuti contro l’Osasuna una settimana prima, e quello gli fa il cucchiaio; o gli fa credere di poter pareggiare la finale di Champions 2014 contro l’Atletico Madrid anche se manca solo un minuto alla fine, perché nell’ultimo disperato corner vede avanzare Sergio Ramos: e difatti... “Proprio dopo quella finale che diede al Real Madrid la sospirata Decima c’è una delle scene più simboliche dell’Ancelotti allenatore”, prosegue Condò. “La sua conferenza stampa viene interrotta dall’arrivo di un gruppo di senatori dello spogliatoio – Marcelo, Sergio Ramos, Khedira, Pepe, Modric – che coinvolgono Ancelotti nei loro balli e canti: è la storia del Real Madrid che rende omaggio all’uomo, prima ancora che al tecnico”. Rivista oggi, la scena splende dei suoi dettagli: per esempio Sergio Ramos, simbolo ineguagliato dell’aristocratica albagia del Madrid, che abbassa la testa per dare un bacino al suo allenatore.

  

Là dove altri colleghi più giovani e più celebrati si farebbero presto divorare dai demoni dell'ansia e dell’inadeguatezza (gli stessi che stanno rendendo Guardiola, persino Guardiola, sempre più ombroso al pensiero delle tante notti di Champions andate di traverso), Ancelotti ha imboccato un'altra direzione. Una serenità ultraterrena e la stima senza fondo verso l'umanità a sua disposizione lo rendono naturalmente superiore alle paturnie dei presidenti: le baruffe goldoniane con Berlusconi sono note, ma non che Florentino sia un capufficio più riposante, ossessionato com'è dall'eguagliare le sei Coppe del mito Bernabeu. Da anni non si ricorda una sua richiesta di mercato ad alta o bassa voce; al limite preferisce chiedere certi giocatori. “Non mi piace litigare”, ha detto a Valdano qualche giorno fa. La trasparenza è fondamentale nella gestione psicologica di quella specie di consiglio d'amministrazione che è oggi lo spogliatoio di una grande squadra: “In questo”, conclude Condò, “forse l’unico alla sua altezza è stato Nereo Rocco”. Sebbene al Paròn fosse sufficiente parlare una lingua sola, se non proprio il dialetto, e rivolgersi al massimo a una trentina di orecchie.

  

Non si trova un solo calciatore disposto a parlare di Ancelotti in toni meno che entusiastici: persino Robben, sospettato di aver cavalcato la fronda anti-Carletto ai tempi del Bayern, ne ha elogiato il lato umano in un’intervista all’Equipe. Lo stesso Valdano alla Gazzetta lo ha disegnato con due pennellate disarmanti: “Non si sente il padrone del futbol. E poi è felice: in questo mondo dove tutti sembrano soffrire come dei disgraziati, ecco una persona che non solo si diverte, ma che ha il coraggio di dirlo”. Così prende forma il ritratto, pacioso e rasserenante come un dipinto del Seicento, di un uomo che capisce gli altri uomini e perciò ha capito il suo tempo. I pochi ostinati detrattori insisteranno sui recenti fallimenti al Napoli e all’Everton; ma guardate dov’è ora l’Everton, terzultimo in Premier League, e guardate dov'è il Napoli di nuovo avvitato in grotteschi trattamenti punitivi proprio come l'aveva lasciato lui. Venticinque anni di carriera ad alto livello (nel maggio 1997 festeggiava la prima qualificazione in Champions con il Parma) rappresentano un'impresa eccezionale nel calcio isterico e distruttivo di oggi: ma dammi retta, diceva un poeta suo corregionale, l’impresa eccezionale è essere normale. Il più grande allenatore? Macché: Carlo Ancelotti è uno dei più grandi esseri umani di sempre.