Il Foglio sportivo – il ritratto di Bonanza
Pep Guardiola, l'arte della sconfitta
Solo, composto, impassibile nonostante la tragedia che si consumava sotto i suoi occhi, l'allenatore del City è l'immagine della dignità di fronte alla disfatta
Non ci sono margini d’errore nel giudicare l’uno e l’altro, semplicemente osservandoli durante e dopo una di quelle partite che farebbe morire di emozioni anche il più algido degli uomini. Nulla li descrive più dei loro gesti, senza l’aggiunta di parole che con quelle siam bravi tutti, o quasi. Stiamo parlando di Ancelotti e Guardiola, protagonisti sia a Manchester che a Madrid di uno dei capitoli più appassionanti della storia del calcio in Europa. Ancelotti masticava la gomma con movimenti sempre più ampi che ti sembrava gli si smontasse la mascella. Per il resto era come una statua di marmo, bianca come la stessa pietra.
Quasi impercettibili i movimenti delle braccia, del busto piantato su due fusti rigidi, le gambe. Gli si aggrappavano i suoi uomini della panchina, un pellegrinaggio, da Marcelo con i capelli scoppiati, allo stesso Benzema, appena sostituito, che pure è grande grosso più della statua de suo allenatore. Accanto a loro il figlio Davide, stessa pasta del padre in quanto a misura. La faccia del giovane ben si accompagnava a quella del vecchio, rappresentandone il contraltare: la pelle stesa dell’inesperienza accanto alle rughe della saggezza. Che coppia, padre e figlio, che bello vedere che esiste un modo di camminare insieme dentro percorsi difficili e mondi esposti come quello del calcio, senza correre il rischio di subire il complesso genitoriale di inferiorità che tanto affligge gran parte dei ragazzi, o il contrario, di supponente superiorità, appannaggio sovente dei padri. Una vita che si può vivere insieme, senza cercare per forza la strada della supremazia. Ci vuole coraggio anche per questo, un sano equilibrio, checché ne pensi il popolo, sempre svelto a giudicare e condannare qualsiasi uomo soltanto per il fatto di essere figlio di tanto padre.
Se ne stava da solo, dall’altra parte, Guardiola, senza figli, senza compagni affettuosi in panchina. Guardava la partita eretto su due stecchi di gambe, il dolce vita blu perfettamente indossato, un figurino rispetto alla statua del suo avversario. Ogni tanto si avventurava verso la linea del campo sbarrando gli occhi, come a non credere allo spettacolo che gli si parava di fronte. C’era in quell’espressione del viso, una muta accettazione del destino, per quanto considerato immeritato. Perché ancora a me? Avrà pensato. E nonostante la mancanza di una risposta, a fronte di un risultato sorprendente, se non ingiusto, la dignità di un sorriso, la conservazione di una gestualità morbida, dopo il fischio finale. Guardiola si dirige verso Ancelotti e lo abbraccia fissandolo negli occhi. È tutto molto spontaneo, e quindi credibile. È il gesto di chi vuole specchiarsi nella vittoria altrui, e trarne un beneficio. Si chiama arte della sconfitta, quella che conoscono solo le grandi persone.
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