Giro d'Italia. Lo studente Simon Yates
Anni fa l'inglese detestava le cronometro, le avrebbe abolite. Prima del Giro però aveva detto che qualche chilometro in più contro il tempo l'avrebbe gradito. Non scherzava. Oggi ha vinto la seconda tappa. E a cronometro. Mathieu van der Poel è ancora in maglia rosa
Non ci poteva essere miglior sintesi possibile della cronometro di Budapest, per i corridori, di quell’indice con l’unghia nera del signore che contava il tempo prima del via: cinque, quattro, tre, due, uno, via. In quella mano forte e ben curata, in quel cerchio scuro sull’unghia rosacea, c’era un suggerimento per loro: ci vuole forza, serve menare, ma non dimenticatevi un minimo di dolcezza, e fate attenzione che ci vuole un attimo a darsi una martellata sul dito.
Nessuno di loro ha visto quell’indice con l’unghia nera, era a favor di telecamera. Il concetto però, in qualche modo, è passato. E ben prima di quella mano. Lo studio di una cronometro del genere, abbastanza corta per non far confusione, è solitamente approfondito e preciso. Soprattutto necessario. Perché le curve erano parecchie, spesso arrivavano, in serie, dopo qualche rettilineo abbastanza lungo da prendere velocità considerevoli.
Sosteneva Michael Rogers, tre volte campione del mondo a cronometro, che contro il tempo, non basta esserci portati, ossia mantenere un ritmo costante e a lungo. Serve anche imparare a essere perfetti nel controllo della bicicletta: una curva impostata non alla perfezione comporta un paio di decimi di ritardo, che diventano anche una decina se si considerano le centinaia di metri successivi. Michael Rogers sosteneva di non essere il cronoman migliore dei suoi anni, ma quello che ha studiato di più per riuscire a migliorare nel miglior modo possibile a curvare la bicicletta da cronometro.
Nemmeno Simon Yates è il migliore cronoman dei suoi anni. Ci va nemmeno vicino. Tre mondiali non li vincerà mai, nemmeno ci pensa. È altro a cui punta, alle corse a tappe di tre settimane. E dato che, in un modo o nell’altro le cronometro ci sono nei ventun giorni di corsa, ecco che si è messo a studiare, a provare a migliorarsi. Si è affidato a un esperto della specialità, Marco Pinotti, con la tranquillità e l’attenzione di vuole imparare davvero e non lo fa tanto per fare.
Sino a qualche anno fa, Yates detestava le cronometro, le avrebbe volentieri abolite. Alla vigilia del Giro d’Italia aveva detto che qualche chilometro in più gli avrebbe fatto molto piacere. Scherza, pensarono i più. Non era così. Oggi ha dimostrato che era terribilmente serio. Anche perché nove chilometri e duecento metri sono quasi un niente contro il tempo, ci sono stati cronoprologhi più lunghi nella storia. E in nove chilometri e duecento metri, per di più con una salita nel finale, la capacità di adattamento è più veloce e i risultati arrivano prima.
Al traguardo della seconda tappa Simon Yates si è presentato dopo undici minuti e cinquanta secondi di pedalati. C’aveva messo così poco nessuno prima di lui. Non sono riusciti a metterci meno tempo neppure quelli che sotto lo striscione di arrivo sono arrivati dopo di lui.
Non Richard Carapaz, diciannovesimo a ventotto secondi; non Vincenzo Nibali, dodicesimo a diciannove secondi; non João Almeida, undicesimo a diciotto secondi; non Wilko Kelderman, settimo a diciassette secondi; non Mathieu van der Poel, che al tempo dell’inglese è andato vicino, ma con tre secondi di troppo. Ora tra chi pensa - e spera - un giorno, in uno dei diciannove giorni che rimangono di corsa, di vestire la maglia rosa, è davanti a tutti: cinque secondi davanti a Tom Dumoulin (terzo di giornata), tredici su Kelderman, quattordici su Tobias Foss, diciotto su Pello Bilbao e Almeida, diciannove su Nibali, ventiquatto su Romain Bardet e Carapaz e via così. Poca roba, certo, ma sarebbe strano il contrario.
Non ha vinto van der Poel, ma si è tenuto la maglia rosa. E questo per lui contava più di ogni altra cosa. Se tutto va come deve andare e non ci saranno scherzi dalla strada, se la porterà in Italia, sicuramente in cima all’Etna. Poi si vedrà. Domani la tappa è pianeggiante, un lungo risalire da ovest a est del lago Balaton, senza (forse) neppure il fastidio del vento: ce ne dovrebbe essere poco, in quelle zone non è così raro.
Domani i velocisti non vorranno perdersi una delle non molte occasioni che avranno. È da anni che gli organizzatori le fanno sudare ai velocisti le volate. Dicono che lo fanno per lo spettacolo. Perché lo spettacolo è diventato necessario, quasi fosse un obbligo, la dittatura dello spettacolo. La possibilità che il ciclismo possa affascinare anche per quelle lunghe transumanze a pedali dove non succede niente, se non una fuga che va e che verrà ripresa, durante le quali si pensa ad altro, si immagina e si pensa a quanto la pianura non sia la migliore dimensione del pedalare, non è mai stata presa in considerazione.