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il foglio sportivo

La geografia rovesciata del Giro d'Italia

Giovanni Battistuzzi

Dopo la tre giorni ungherese, il Giro torna in Italia. Riparte dalla Sicilia e risalirà il paese, lungo quella sterminata provincia che per undici mesi è degnata d’attenzione solo per qualche caso d’appassionante cronaca nera

Il Giro d’Italia, e non solo il Giro ma tutto il ciclismo, è un ribaltamento prospettico, una rivoluzione copernicana del territorio. Non lo cambia, non lo modifica nemmeno, piuttosto si adatta, cosa davvero rivoluzionaria in tempi moderni. Eppure allo stesso tempo lo scombussola e lo ribalta, almeno nelle priorità geografiche. Le città contano poco, s’abbassano di grado e di importanza, diventano soltanto un contorno  rispetto al centro vero dell’interesse. Ossia quella sterminata provincia che per undici mesi è degnata d’attenzione solo per qualche caso d’appassionante cronaca nera.

 

Il Giro d’Italia è iniziato venerdì dall’Ungheria, ripartirà dall’Italia martedì 10 maggio, scorrerà per il paese per la centocinquesima volta, fino a domenica 29.

 

Il Giro d’Italia è nato in città, Milano nel 1909, dalle città partiva e nelle città arrivava, ma era nelle conquiste agresti che dava il suo meglio, era lontano dai centri medi o grandi, che ha conquistato il paese, diventando il momento più atteso dell’anno. Fu il primo evento nazionalpopolare italiano, il primo moto di unione reale, e non solo politica, del paese. Soprattutto uno dei primi moti di creazione di un immaginario comune.

 

Il geografo Elio Migliorini, uno dei più insigni accademici italiani – fu membro dell’Accademia delle Scienze italiana e dell’Accademia dei Lincei –, disse che il suo interesse per la geografia nacque “in una data precisa: il 13 maggio del 1909”, il giorno dell’inizio del primo Giro d’Italia. “Fu mentre sentivo leggere da mio padre la cronaca della tappa sulla Gazzetta dello sport, che mi appassionai ai nomi delle città che i corridori avevano attraversato. Erano innumerevoli e diversi da quelli che di solito facevano menzione”. Probabilmente tutto accadde il 14 maggio, il giorno seguente, ma non è compito di chi scrive mettere in dubbio la versione di un grande accademico, per di più appassionato di biciclette. Fu sul finire degli anni Cinquanta che Migliorini, esimio esperantista, notò che “il ciclismo non è dissimile dall’esperanto, è un linguaggio universale”.

 

Il linguaggio cambia con il cambiare della società, espande il vocabolario, qualcosa perde, qualcosa ingloba. Allo stesso modo funziona per il Giro. La corsa rosa ha abbandonato progressivamente le grandi città, visto che le biciclette creavano disagi agli automobilisti, che già di loro vivevano in coda, e pochi sindaci erano disposti a spendere qualche lira per assicurarsi l’arrivo di una tappa. Poco male, si è arricchita la geografia italiana, che ha scoperto nuovi luoghi, nuove storie, più o meno antiche e più o meno interessanti. Un po’ come accadde nel 1909 a Giuseppe Perna da Regalbuto, Sicilia. Il giorno prima dell’inizio del primo Giro d’Italia, il corridore venne trovato due uomini dell’organizzazione mentre girava incredulo nei pressi del centro iscrizioni. Mancava solo lui per chiudere le pratiche di registrazione. Aveva addosso un cappotto di lana e in testa uno zuccotto, disse loro: “Mi hanno ingannato, ho speso una fortuna e sono nel posto sbagliato. Dove sono le montagne? Dov’è il ghiaccio?”. Pensarono che li stesse prendendo in giro, non era così: a Regalbuto giravano strane leggende su Milano, l’avevano convinto che fosse in alta montagna e che fosse dieci mesi l’anno ricoperta dal ghiaccio.

   

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Non andò poi tanto diversamente al belga Willy Van Neste nel 1968. Quel Giro partiva da Campione d’Italia e terminava a Napoli. E alla ventesima tappa, la penultima, rischiò di perdere il quinto posto in classifica generale salendo verso Blockhaus. “Ero a tutta, finito, fortuna che non se ne sono accorti e non mi hanno attaccato. Jean (Milesi, suo compagno di squadra ma non al via di quell’edizione) mi aveva detto di stare attento al Blockhaus, ma io pensavo che fosse nelle prime tappe, vicino alla Svizzera. Chi poteva immaginarsi che un monte che si chiama Blockhaus potesse essere al sud”.

 

Il Blockhaus è la Maiella ciclistica, si chiama così perché lassù ci mandavano gli alpini dell’altissima Italia a far la guardia ai briganti e per ripararsi ci costruirono un fortino in pietra: blockhaus, appunto.

 

Il Blockhaus ospiterà l’arrivo della nona tappa del Giro d’Italia 2022, domenica 15 maggio. Non sarà l’unica particolarità toponomastica che offrirà in questa edizione. Perché il bello del Giro sono anche i nomi che attraversa, quei luoghi che solo a leggerli ti attraggono, ti rapiscono, ti portano in una dimensione geografica che oltrepassa il reale e raggiunge l’immaginario. I nomi dei luoghi del Giro sono biblici e mostruosi. Sono santi che non esistono: Sanremo, San Pellegrino. Sono toponimi che dicono tutto, fanno capire con esattezza a cosa si andrà incontro: Vetriolo, Mortirolo, Crocedomini, Menador. Sono dolci nomi di donne, messi lì per ingannare i ciclisti dalla durezza dell’ascesa: Valico di Santa Cristina, Colle della Maddalena. Sono i luoghi che sono contorno per trecentosessantaquattro giorni l’anno, che non si nominano mai e che forse non li si conosce neppure, ma che diventano storia e passione, un altrove vicino, sui quali si può ancora fantasticare.

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