L'Inter vince la Coppa Italia e condanna la Juve a una stagione da "zeru tituli"
La finale della coppa nazionale è un riassunto della stagione 2021/2022. I nerazzurri di Inzaghi si sono dimostrati belli con le solite eclissi. La Juve di Allegri ha bisogno di idee chiare e di cambiamenti
Alla fine di centoventi minuti più rumorosi che musicali, divertenti e spettacolari come quei film con un sacco di esplosioni ed effetti sonori spacca-timpani, l'Inter ha vinto la sua ottava Coppa Italia. L'ha vinta con un certo merito, perché era la più forte delle due squadre in campo e perché quando ha spinto a tavoletta per recuperare da 1-2 non ha più trovato resistenza in una Juventus stremata e senza cambi all'altezza dei titolari. Ha vinto nonostante uno dei suoi classici black-out, eclissi di Inter che ormai si verificano con frequenza eccessiva anche per le fasi più tumultuose della storia dell'astronomia. Ha vinto perché ha il miglior giocatore della stagione, Ivan Perisic, atleta di costanza fisica incredibile per un 33enne e calciatore formidabile – anche in senso letterale: guardate dove ha mandato il pallone di destro e di sinistro nel giro di tre minuti. Anche lui, come Diego Milito nel 2010, ha aspettato di risolvere una finale con una doppietta prima di mandare messaggi quantomeno freddini alla società che probabilmente s'è cautelata in tempo, fin da gennaio, altrimenti non troverebbe spiegazioni l'acquisto del fin qui esuberante (nel senso che è un esubero) Gosens. Ha vinto grazie a un allenatore che ha un certo gusto per le finali, specialmente contro la Juventus, se è vero che l'ha battuta già quattro volte tra Coppe Italia e Supercoppe.
In attesa che il campionato sveli le ultime carte, si può già scrivere tranquillamente che la prima Inter di Simone Inzaghi è da 7 pieno, con il grande rammarico del vantaggio dissipato in Serie A ma anche con una dimensione più internazionale nel modo di stare in campo e di saper sbatacchiare qualunque avversario nei segmenti di gioco più ispirati, bella da vedere soprattutto quando tiene il baricentro alto, poco leggera e fantasiosa ma molto potente, votata a un dinamismo che il suo allenatore tenta di alimentare il più a lungo possibile anche forzando alcune sostituzioni che a volte gli si sono ritorte contro. Per un giudizio più compiuto su Inzaghi, però, bisognerà per forza di cose restare in sospeso almeno per altri quattro giorni.
Se davvero “vincere è l'unica cosa che conta”, questa è evidentemente una delle peggiori stagioni della storia della Juventus. “Zero tituli” dopo undici anni, ma quello è il meno. Nessuna vittoria in otto scontri diretti con Inter, Milan e Napoli, le prime tre della classifica. Nessuna vittoria con più di due gol di scarto in campionato: non succedeva dal 1968-69. Nono attacco della Serie A, alla pari con l'Udinese. Un intero campionato trascorso dalla prima all'ultima giornata fuori dalle prime tre posizioni: non succedeva dal 1961-62. Numeri a parte, un'impressione di inferiorità diffusa in ogni reparto non appena si alza l'asticella e la Juve è chiamata per costituzione a essere Juve. Nessuna vera notte da ricordare: paradossalmente la miglior partita stagionale, lo 0-1 con l'Inter dello scorso 3 aprile, è coincisa con l'abbandono dell'utopica rimonta-scudetto. Sarebbe facile incolpare di tutto Allegri e il suo lauto ingaggio; l'uomo non è certo un avanguardista e una buona parte di tifosi juventini lo condurrebbe volentieri al patibolo spettato negli anni passati a Pirlo, Sarri e allo stesso Allegri, ma la parte del torto – come scritto tante altre volte – ha un ampio numero di posti a sedere. La rosa è scarsina in parecchi giocatori e parecchie zone del campo, e vedere in campo con la maglia bianconera gente come Luca Pellegrini fa piangere il cuore sia ai “giochisti” sia ai custodi dello juventinismo. Il mercato è stato fatto al buio per la nota faccenda Ronaldo ma anche per una certa sopravvalutazione di parecchi elementi. La Juventus 2021-22 si conferma una squadra ciambella con il buco in mezzo, un centrocampo totalmente da rifondare, inadeguato in tutti i suoi interpreti: il migliore della stagione è stato Locatelli, il cui rendimento comunque impallidisce al cospetto dei Tonali e dei Barella. Le attitudini tecniche dei giocatori migliori fanno a cazzotti con l'atteggiamento tattico proposto e riproposto da Allegri fino a sfidare il buonsenso, ma avallato dalla società che un anno fa l'ha richiamato con una punta di disperazione: che senso ha, una buona volta, tenere De Ligt asserragliato negli ultimi sedici metri a far la guerra coi centravanti come se fosse un Chiellini batavo, quando sono ormai limpidi – lo testimoniano gli otto falli da rigore commessi in tre anni e altre sbavature assortite come quella di Villarreal – i suoi evidenti limiti da marcatore puro? Che senso ha difendere così basso se oltre la linea dei venti metri non c'è nessuno che sappia portare il pallone, smistarlo con lucidità, tentare un'iniziativa personale? Chi salta l'uomo nella Juventus, se non – molto di rado – il logoro Cuadrado e Dybala che ormai gioca con il cappotto addosso e le chiavi della macchina in mano? Cos'è stato fatto, da febbraio in avanti, per adeguare la fase offensiva a un attaccante per cui la società ha sacrificato gran parte del budget estivo? In questi giorni si è scritto molto del nervosismo di Vlahovic, che pure ieri è stato ampiamente sufficiente e non solo per il gol: in campo scalpita e si strugge come un giovane Higuain (un altro magnifico umorale che non aveva un gran rapporto con le finali, e più in generale con le partite importanti) e, in attesa di una sua fisiologica crescita sotto tutti i punti di vista, sarà obbligo della Juventus 2022-23 metterlo nelle condizioni di tirare e segnare, che poi è il motivo per cui Agnelli e Arrivabene hanno deciso di metterselo in casa tre mesi fa.
L'Inter ha vinto – bisogna pur dirlo – anche grazie a un episodio quantomeno nebuloso, il rigore del momentaneo 2-2, che certamente non migliorerà la reputazione di una classe arbitrale che sta uscendo a pezzi da questa stagione: a cadere nella buca scavata furbamente dall'astuto Lautaro è stato Valeri, uno dei migliori della stagione. Ancora una volta va ricordato che urlare al Var è come guardare il proverbiale dito e ignorare la luna, che è la mediocrità complessiva di una squadra arbitrale allenata male e gestita peggio, nel regolare rifiuto di ogni comunicazione con l'esterno, esibendo anzi una permalosità del tutto fuori luogo vista la poco edificante media di due-tre errori da matita blu a settimana. A occhio la proposta del “Var a chiamata” rischia di complicare la situazione, dando in mano a un ambiente già esasperato anche uno strumento dai mille nuovi diabolici cavilli che, come diceva quel tale sotto la pioggia, “voi umani non potreste immaginare”. Qualcosa su cui parlarsi addosso a vuoto per ore e ore e ore, il vero sport nazionale.
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