Arnaud Démare, Diego Rosa e la Regola del Giro
A Scalea il francese vince la sesta tappa del Giro d'Italia. Una giornata lunga, tranquilla e balneare, che ha inaugurato la fuga solitaria ed è finita come non poteva che finire: un'attesa extra per il fotofinish
Mentre era impegnato a portare il verbo di San Francesco in Calabria, Pietro da Sant'Andrea iniziò la costruzione di diversi conventi. Uno di questi a Scalea. Nella sua missione, il frate affianco alla Regola del santo di Assisi, inserì una postilla: lentezza e solitudine avvicinano l'anima dell'uomo a Dio, donano salvezza. Il che non era proprio affine alla Regola, ma tant'è
Chi sta correndo il Giro d'Italia probabilmente non ha dimestichezza con la Regola francescana, sebbene una regola tutti i corridori la debbano per forza seguire: non è poi così diverso il ciclismo dal monachesimo, la bicicletta impone una spiritualità dinamica. E quasi certamente non ha conoscenza della postilla di Pietro da Sant'Andrea alla Regola. Eppure l'insegnamento del frate è stato seguito perfettamente. Sopratutto da Diego Rosa della Eolo-Kometa che per 141 chilometri ha pedalato minuti avanti al gruppo, da solo, a tessere e inseguire chissà quali pensieri. Uno su tutti: perché nessuno mi ha seguito? Le fughe a questo Giro d'Italia erano sempre questione di gruppetto, quanto meno di coppia. La sesta tappa del Giro ha inaugurato l'avventura solitaria, quella senza speranza, perché c'è mai speranza di capovolgere l'ovvio se ci si trova a pedalare soli contro centosettanta.
Diego Rosa non ha fatto caso al vuoto che aveva attorno, ha continuato con la sua azione vento in faccio, nella sua esplorazione lunga, tranquilla, balneare, panoramica.
È andata così oggi. Almeno sino a una ventina di chilometri dall'arrivo. La velocità è poi progressivamente aumentata, non poteva essere diversamente: c'era una volata da preparare. Quella che ha vinto Arnaud Démare (che raddoppia quella di ieri, ma questa volta senza un Nibali che gli prende la scena annunciando il ritiro) su Caleb Ewan e Mark Cavendish. Quella che per avere un responso, al fotofinish, c'è voluto parecchio. Un tempo lunghissimo che lunghissimo non era. In questi casi si cade sempre nell'errore di prospettiva, quando si è lì a non sapere chi ha vinto e chi no il cronometro accelera, va velocissimo. Un errore di prospettiva non diverso da quello nel quale è incappato Fernando Gaviria a poche centinaia di metri dal traguardo: è finito a incocciar la traiettoria di Bol e Dainese per urgenza di velocità
Un finale, anzi un dopo finale, perfetto per la giornata di oggi.
Trentotto all'ora sono una velocità media da scampagnata d'allenamento (per i professionisti, per noi ciclisti pingui della domenica è cosa impossibile) in una tappa con meno di mille metri di dislivello. Il ciclismo è anche questo, distribuisce velocità e attese, accelerazioni e rallentamenti. Perché un Giro d'Italia è anche una ricerca della salvezza, che non ha a che fare esattamente con quella che indicava Pietro da Sant'Andrea, ma più che altro con il dosaggio, il più sapiente possibile, delle energie per evitare che queste manchino nel momento sbagliato, che solitamente è sempre quello nel quale la strada sale e punta al cielo montano.
E di salite ce ne sono tante e di metri di dislivello di più, sino a Verona. A partire da domani, che i corridori vagheranno per Calabria e Basilicata, a seguire un su e giù pressoché continuo.