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Il Foglio sportivo

Un giorno nella vita di Gianmarco Tamberi

Diego Guido

Il saltatore in alto, il padre allenatore e quel silenzio infinito da Ancona a Monaco: “Impariamo ogni giorno l’uno dall’altro. Non abbiamo ancora finito”. La nuova stagione di Gimbo

Sotto al grande tavolo bianco della sala stampa del Palaindoor di Ancona, le caviglie nude di Gianmarco Tamberi balzavano all’occhio per la loro estrema sottigliezza. Poco più su le sue gambe, lunghissime, non facevano nulla per nascondere una velata tensione. Le teneva esageratamente divaricate, le piante dei piedi saldate a terra, in una postura padrona di sé che mi era sembrata il suo tentativo di impossessarsi in fretta di quel momento. Di sentirsi a proprio agio. Eppure l’espressione appena tirata del viso e l’incessante moto pendolare delle sue ginocchia, svelavano altro.

 

Le prime parole della conferenza stampa – organizzata per presentare il vero avvio della sua prima stagione da campione olimpico di salto in alto – le avevano pronunciate suo padre e il suo allenatore, che sono poi la stessa persona. “Il fisico di Gianmarco sta bene, la tecnica ancora no”, diceva il padre mentre il figlio osservava un punto indefinito sul muro bianco alle spalle dei giornalisti. “Ora è normale, manca l’abitudine ai salti e in questo le gare lo aiuteranno”, proseguiva il padre a fianco della danza irrequieta delle ginocchia del figlio. Marco Tamberi aveva concluso il suo intervento snocciolando date e appuntamenti di maggio, di giugno, dei Mondiali a luglio, degli Europei ad agosto. “L’obiettivo è portarlo al top della forma a metà estate, ai Campionati del Mondo di Eugene”. Sembrava di assistere alla scena del campione ostaggio del proprio talento e del proprio ruolo, prigioniero di programmi e di sfide che altri decidono per lui. Poi il microfono era passato a Gianmarco ed era bastato poco per capire che quell’impressione era sbagliata.

 

“Buon pomeriggio, è un piacere vedervi così numerosi”. Non eravamo più di trenta in sala, compresi gli operatori, ma un paio d’ore dopo, restato solo con lui, avrei capito meglio. “Scusa ma di solito quanti giornalisti trovi?”. “Che ne so, mai fatta una conferenza stampa solo per me, lontano da una gara”.

 

La prima risposta che mi ha dato in quella breve conferenza ha confermato e spiegato il suo nervosismo iniziale. “Ieri ho fatto un allenamento davvero brutto. Due ore di tecnica con risultati deludenti. Se oggi sono più serio del solito è per questo”.

 

L’avevo poi lasciato rispondere a domande più semplici, che erano scivolate via facilmente mettendo finalmente in pace le ginocchia, prima di chiedergli sul suo rapporto con la sofferenza e con la delusione. “Quando ti sei chiesto chi me lo fa fare dopo l’oro olimpico di stare male e di arrabbiarmi ancora, cosa ti sei risposto?”. Si è messo a ridere, forse sollevato al pensiero di poterlo dire. “Dopo Tokyo mi sono detto che non avrei più potuto sopportare un’abnegazione talmente totale. L’ossessione per la medaglia mi aveva consumato, al limite della salute mentale. Volevo cambiare questo meccanismo, vivere anche la mia vita oltre a fare l’atleta. Ma mi sono reso conto che non ci riesco del tutto. Dopo un brutto salto fatico a voltare pagina velocemente. Speravo di riuscirci meglio dopo Tokyo, invece non così tanto. Lo devo accettare, è parte di me. Senza quell’atteggiamento non avrei ottenuto l’impossibile. Ho capito che di fronte alle difficoltà, trovo le soluzioni solo entrandoci con tutte e due le scarpe”.

 

Già, le scarpe. Poco dopo la conferenza si era presentato al campo di atletica di Osimo tenendone in mano un paio di un delicato verde fluo. Entrambe dello stesso colore, segno che non avrebbe fatto salti in quella sessione. Aveva sceso le scalette verso l’anello rosso della pista, la sua pista, dove ha cominciato nel 2009. C’erano allenatori e bambini della squadra locale di atletica sparsi tra il prato e la vasca di sabbia del salto in lungo, e lui salutava chiunque incontrasse.
La grande anomalia di Gianmarco sta proprio nel suo inizio, o meglio, nell’età che aveva al suo primo allenamento di salto in alto. Diciassette anni, mentre ancora giocava a pallacanestro. A tempo pieno solo dall’anno dopo, a diciotto. Una grande anomalia anagrafica che ne contiene una ancora più enorme: aver scelto, con tutto quel ritardo, una disciplina con un tasso tecnico sconcertante, in cui la velocità di corsa combinata alla misura millimetrica dell’ampiezza dei passi in rapporto ai gradi di angolazione della rincorsa in curva, per non parlare di ogni singolo gesto durante la fase di volo, fanno la differenza tra toccare l’asta oppure no. Per arrivarci aveva combattuto con se stesso – accettando che non sarebbe mai diventato cestista ad alti livelli – e con altri – tra cui la prof di educazione fisica che per le gare scolastiche insisteva per iscriverlo alla campestre mentre lui si ostinava a voler saltare, “non hai talento per quello”.

 

Non è storia da predestinato, è storia da underdog. L’ultimo arrivato nel circuito, prima nazionale e poi mondiale, quello strambo che giocava a basket, di cui non ci si ricordava nemmeno il colore della divisa che portava in gara talmente era invisibile a chi guardava alle medaglie. In Tamberi non c’è l’istinto di chi è nato esattamente per fare quello, la classe genetica alla Mutasz Barshim, c’è tuttavia la razionalità folle dei non-migliori che si mettono in testa di volerlo diventare. È stata una lunga rincorsa. È stato un lavoro, perché così è per lui il salto in alto. Certo, ricco di emozioni e di sogni, ma pur sempre un lavoro. Dopo un brutto allenamento fugge verso il basket giocato con gli amici come chiunque cerca distrazioni e sfoghi per scacciare le scorie di una brutta giornata in ufficio. Sul suo feed Instagram le sua abilità sulla pista escono come un semplice racconto del suo quotidiano: ecco di cosa mi occupo. Non c’è traccia dell’orgoglio scanzonato e sbruffone dei video che pubblica in cui tira da tre o va a schiacciare. Lavoro contro hobby, impegno contro amore.

 

Tamberi è soprattutto il suo corpo. Una tela su cui sfogare le fibrillazioni gioiose e snervanti, trionfanti e drammatiche. La barba rasa a metà, le vistose gestualità, il braccio su cui al mondiale indoor di febbraio ha scritto col pennarello i nomi di Bondarenko e Protsenko, ucraini inevitabilmente assenti. Ma anche i capelli – sia sciolti, sia legati in alto, sia ossigenati – o ancora la caviglia ingessata nel 2016 diventata reliquia cinque anni dopo a Tokyo, davanti al mondo. Il corpo come uno strumento. Incredibilmente lungo, flessibile, asciugato di tutto il superfluo per poter volare più in alto.

 

Ho seguito il suo allenamento in compagnia di suo padre Marco, con Gianmarco che nella pause tra una ripetuta e l’altra veniva a prendere fiato vicino a noi. Avevo un’ultima domanda, e riguardava entrambi. “Come state? Dopo Tokyo avevate detto pubblicamente di essere arrivati a rischio rottura per l’esasperazione delle settimane di avvicinamento alle Olimpiadi. Se ora siete qui immagino abbiate trovato un nuovo equilibrio”. Lungo la domanda si sono scambiati sguardi. “Mi ricordo di un viaggio in auto io e lui fino a Monaco, per un controllo. Mancava un mesetto a Tokyo. Da Ancona a là non abbiamo scambiato una sola parola. Te lo giuro, il silenzio. Lo specialista ci aveva chiesto come stavo”, qui aveva guardato suo padre dimenticandosi per un attimo della mia presenza, “e tu gli hai risposto: ‘Chiedilo a lui. A me non lo dice’”. Sorridono, ricordano. “Lo stimolo ora”, dice il padre, “è imparare ogni giorno l’uno dall'altro. Io nel come gli dico le cose, lui nel come le recepisce”.

 

La stagione si apre con con una nuova coscienza di se. La fame è viva e soffrire ha ancora un senso. Gianmarco è sereno e Tamberi è determinato. Vuole provare a prendersi l’ultima delle grandi medaglie che ancora gli manca, l’oro mondiale. “A questo punto dell’anno ci sono alti e bassi negli allenamenti e dunque anche nelle ambizioni. Ancora non so esattamente a quale misura posso puntare in stagione”.

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