Quando Vittorio Adorni incontrò Pier Paolo Pasolini
Il Giro d'Italia è ripartito da Parma, la città dell'ex campione del mondo che al Processo alla tappa di Sergio Zavoli vestì i panni dell'intervistatore di PPP
Il 17 maggio 1969 è un sabato e il Giro d’Italia è iniziato da due giorni. La seconda tappa, la Brescia-Mirandola, è stata vinta da Davide Boifava, che ha anche conquistato la maglia rosa. Boifava ha 21 anni ed è un neoprofessionista della Molteni alla sua prima esperienza nella corsa rosa, ma non così inesperto da non approfittare di un’esitazione del gruppetto in fuga e di scattare in contropiede a 15 chilometri dal traguardo per andare a prendersi tappa e maglia. Quello più arrabbiato di tutti è l’ex maglia rosa Giancarlo Polidori, anche lui della Molteni, che accusa il compagno di squadra di avergli giocato un bello scherzetto.
Il ciclismo, e in particolare il Giro d’Italia, è così e, in particolare in quegli anni, vive di polemiche e bisticci. Il palcoscenico ideale di quella “commedia dell’arte a pedali” è il Processo alla tappa, la trasmissione che dal 1962 è una seguitissima coda dialettica della corsa. Sono polemiche accese e vibranti ma non trascendono mai i limiti della buona educazione, come vuole il suo inventore e maestro cerimoniere, Sergio Zavoli. Come molti programmi televisivi del tempo, anche il Processo ha la consapevolezza di svolgere, pur all’interno di un contesto dello svago sportivo, una funzione di servizio pubblico a vantaggio dei telespettatori. Così, nel contesto un po’ sudato del dopo-gara, alle parole ingenue e dirette dei corridori si mischiano talvolta le testimonianze di uomini di cultura, da cui c’è sempre qualcosa da imparare.
Quel giorno di metà maggio 1969 da uno studio RAI di Roma, in collegamento col palco di Mirandola, c’è Pier Paolo Pasolini. che in quegli anni è una figura di intellettuale molto nota anche al grande pubblico: le sue opere teatrali e cinematografiche – Orgia, Porcile, Teorema… – suscitano scandalo, i suoi interventi su quotidiani e riviste a proposito delle rivolte studentesche sono provocatori, la sua stessa vita privata è spesso al centro della stampa scandalistica. A dialogare a distanza con Pasolini è Vittorio Adorni che, a sua volta, non è un corridore qualunque. Il campione parmigiano, ha 31 anni e l’anno precedente, il 1968, ha vinto il Campionato del mondo: in un ciclismo che si appresta a vivere gli anni del dualismo tra Felice Gimondi e l’emergente Eddy Merckx, e in un contesto molto popolare e naïf che si presta ancora alle facili prese in giro della satira ("Ciao mama, sono arrivato uno…"), Adorni rappresenta l’eccezione. È un uomo elegante, sa parlare con disinvoltura e appropriatezza di linguaggio e ha una naturale propensione alla comunicazione televisiva. Lo ha capito bene Sergio Zavoli, che fin dal 1965 – anno in cui Adorni vince il Giro – ne ha fatto praticamente un ospite fisso della sua trasmissione.
"Io mi ricordo che non sapevo niente, o quasi niente di Pasolini – racconta oggi, a 53 anni di distanza, Vittorio Adorni, nella sua bella casa di Parma, accogliendoci in una stanza che è praticamente un museo della sua vita di campione ciclistico, tra coppe e trofei, maglie rosa e iridate, foto di imprese e di amicizie – Non è che avessi tempo di leggere i suoi libri. Io facevo il corridore e leggevo, sì, i giornali, mi tenevo informato, sapevo che Pasolini era un grosso personaggio… uno scrittore, un regista… Ma Zavoli mi ha preso in contropiede: 'Fa’ delle domande a Pasolini…', mi disse. Io, confesso, non sapevo cosa dirgli…".
In realtà, Vittorio Adorni, ancora oggi a quasi 85 anni, impeccabilmente elegante e vivacemente spigliato, in quell’occasione se la cavò più che bene. Infatti gli si rivolse a Pasolini con un piglio che sembra quasi un po’ sfrontato, chiedendogli cosa fosse venuto a fare al Processo alla Tappa: "È venuto per farsi pubblicità, è venuto per vedere se c’è qualche nuovo caso per poter fare un film, oppure scrivere dei libri? È convinto che nel ciclismo ci siano soltanto dei pedalatori, sfaticatori della strada, oppure lei stesso è convinto che ci sia dentro qualcosa, qualcosa di buono da tirar fuori, magari qualche bel personaggio da scrivere, oppure qualche film da fare. Vorrei sapere questo…".
Pasolini rispose un po’ sulla difensiva. Aveva appena ascoltato le dichiarazioni di Vito Taccone, uno dei principali protagonisti delle polemiche del dopo-corsa di quegli anni, spaccone e rodomontico, sanguigno e vernacolare, e ora si trovava davanti un ciclista che argomentava in un italiano corretto, e in modo un po’ polemico e provocatorio. Quasi si giustificò, Pasolini: "Venire qui mi piaceva perché il ciclismo è uno sport che amo moltissimo e lo amo da quando ero ragazzino. Non so, per esempio lei sa chi era Canavesi?".
Severino Canavesi era un ciclista che correva a metà degli anni Trenta, quando Pasolini, nato nel 1922, era un ragazzino. Dal 1936 al 1940 si piazzò sempre tra i primi cinque al Giro d’Italia, anche se la sua principale affermazione fu la conquista del titolo italiano su strada nel settembre del 1945, a pochi mesi dalla fine della guerra. Chissà perché Pasolini, negli anni in cui a dominare erano Bartali e Coppi, faceva il tifo per Canavesi…
Ma poi continuò: "Sono venuto qui semplicemente per amore del ciclismo. Però stando qui, come sempre succede, nascono le sorprese, le cose impreviste. Per esempio, ho visto due facce che veramente prenderei in un film, cioè la faccia di Dancelli e la faccia di Taccone".
È chiaro che a Pasolini interessava il volto popolare del ciclismo, e i suoi interpreti antropologicamente legati a quell’Italia che, secondo il suo modo di vedere, stava soccombendo di fronte all’omologazione culturale del consumismo borghese e piccolo borghese. Agli occhi di Pasolini, Adorni era lontano da quella sua idealizzazione di autenticità rurale, contadina, capace di riscattarsi attraverso la fatica dello sport. Adorni possedeva già altri strumenti per vivere in un mondo che stava rapidamente cambiando, e che Pasolini guardava con un po’ di sospetto.
Adorni che, da uomo intelligente intuì un certo irrigidimento dello scrittore, provò a spiegarsi meglio: "Volevo sapere un po’ le sue impressioni perché generalmente i giornalisti ci investono sempre delle solite domande. Non che gli voglia male, che non sappiamo scrivere… però è un po’ sempre la solita storia: i rapporti, perché sono scappati, perché hai mangiato, perché non hai mangiato, sei andato in crisi di fame. Siccome lei è un grandissimo scrittore e tutte le cose che ha fatto sono state un po’ elogiate, criticate… vorrei sapere da lei una cosa, una cosa veramente sincera: crede veramente che questi corridori siano degli sfaticatori di strada, oppure crede ci siano dei personaggi diversi dal pedalatore al di fuori dalla corsa?".
La risposta di Pasolini è emblematica del suo approccio artistico, diciamo umanistico, alla realtà e alle cose del mondo, e in questo caso dello sport: "Naturalmente questa distinzione non la farei mia. Cioè non ho mai un’idea schizofrenica del mondo, Nessuno è mai diviso tra pedalatore e uomo. È chiaro che tra i ciclisti ci sono degli uomini con i loro casi interessanti, e proprio quello che ha detto Taccone, è una vicenda umana molto interessante, commovente [Taccone aveva parlato del momento di difficoltà che aveva attraversato, nella stagione precedente, a causa della perdita di una figlia e che lo aveva portato sulla soglia della depressione, ndr]. Non ha niente a che fare con un pedalatore: così è quando anche nel ciclismo evidentemente c’è del materiale ricco anche di possibile ispirazione, perché no, anche per uno scrittore".
Ancora oggi Adorni ricorda che quell’incontro, per quanto fugace, fu significativo nella sua memoria di ciclista e di uomo: "Sì, mi è capitato di ripensare a quella scena. Una scena che è rimasta nei ricordi anche di altri che l’hanno vista, e che spesso me l’hanno ricordata… Non ho avuto più occasione di incontrare Pasolini, ma mi sarebbe piaciuto farlo, avere occasione di approfondire quelle riflessioni…".
Pasolini, in quel breve incontro, aveva comunque visto giusto, cogliendo la sostanziale diversità antropologica tra figure come quelle di Taccone e Dancelli, molto più vicine alla sua “estetica” di narratore e interprete del reale, e quella di Vittorio Adorni di cui scriverà in un articolo, poche settimane dopo quell’incontro, che avrebbe fatto carriera in televisione. Adorni, infatti, chiusa la sua vita da corridore, per le sue abilità di relazioni e comunicazione è diventato un volto noto della cronaca sportiva, oltre che un affermato dirigente ciclistico a livello internazionale.