Giro d'Italia. Yates e il romanzo perfetto
Verso Torino succede di tutto. La Bora-hansgrohe dà il via alla rivoluzione, l'inglese coglie il momento giusto, Carapaz è la nuova maglia rosa, Hindley si trasforma in antagonista principale, Nibali fa capire che non è un ex corridore
Verso Torino, lungo i centoquarantasette chilometri della quattordicesima tappa del Giro d’Italia, la Bora-hansgrohe ha deciso che lì e in quel momento, e non altrove e più in là nel tempo, fosse il giorno e il luogo giusti per provare la rivoluzione. Da Santena a Torino, d’altra parte c’era nulla di quello che il ciclismo scambia, a volte erroneamente, come garanzia di spettacolo. Nessuna salita “paurosa” (e come sottolinea spesso Andrea Trapani, che qui avete letto per questioni tecnologiche, ma è anche fine esperto di ciclismo: "Una salita non è tale perché indicata da un cartello, ma diventa tale solo con il sudore del gruppo"), di quelle che generano timore, nessuna conclusione ascensionale, magari con pendenze a doppia cifra. Lo striscione d’arrivo era in piano, le salite moderatamente lontane dall’arrivo e che iniziavano presto, dure sì, ma non capaci di aggredire la fantasia, restringerla in una dimensione d’attesa. C’era niente di tutto questo. Solo un su e giù poco più che collinare, tremila metri di dislivello, cioè il discrimine giusto per non togliere speranza a nessuno, il via perfetto per provare a scardinare convinzioni, quelle che dicono che cambiare l’andamento della corsa sia impossibile.
È stata una meraviglia, un continuo attaccare e un continuo inseguirsi, che nessun resoconto scritto può fotografare appieno. Per cui, lasciate perdere questo inseguimento di parole e riprendete la differita della tappa. Sì, abbiamo la tecnologia per farlo e senza essere l'ingegner Cane.
I progetti di rivolta vanno mica sempre secondo i piani però. E in realtà verrebbe da dire, e con una certa soddisfazione, poco male. Ogni tanto s’impossessa del proscenio una variabile che si sapeva che avrebbe potuto scombussolare tutto, ma non se ne era sicuri. Tant’è. Se ne farà una ragione la Bora, il loro l’hanno fatto, non possono avere rimpianti. E Jay Hindley ha messo un timbro sul certificato che al Giro ci pensa e ci pensa eccome. Terzo sotto lo striscione d'arrivo, e prima di molti, di tanti, sicuramente dei più. E per minuti, bica bruscolini.
Simon Yates ha trovato il momento giusto per trovare la solitudine dell’avanguardia della corsa, lo scatto buono per togliersi di torno chi gli era rimasto attorno. Ossia Jay Hindley, Richard Carapaz e Vincenzo Nibali, per ordine d’arrivo. Loro e nessun altro. Simon Yates ha vinto e ha iniziato a capovolgere il senso del suo Giro d'Italia che sembrava essersi trasformato in un trionfo di mestizia. Ci credeva mica che potesse essere possibile. Ci credevano nemmeno gli appassionati. Intanto è arrivata questa tappa, del futuro chissà.
Sui colli vicino a Torino, la rivoluzione della Bora-hansgrohe, non si è concretizzata né con la vittoria di tappa, né con la maglia rosa, che ha vestito Richard Carapaz. Eppure c'è nulla da essere dispiaciuti. La tappa di oggi ha scavato un solco, un prima e un dopo. E se il prima era un Giro s’Italia che lo potevano sognare in tanti, il dopo è un Giro d’Italia che lo possono ambire molti di meno. Non l’ex maglia rosa Juan Pedro Lopez, finito a oltre quattro minuti; non Alejandro Valverde a otto minuti dal vincitore; non Guillaume Martin, che ha pagato nove minuti. Per gli altri rimane l’attesa, quella di chi non sa cosa aspettarsi, quella di chi non sa se una difficoltà di oggi sarà un problema domani. Rimangono in meno, non pochissimi. Vedremo. Non è detto che i problemi di oggi equivalgano ai fallimenti di domani. Se sarà così, scusate, è un eccesso di ottimismo.
Joao Almeida e Mikel Landa si sono staccati, non hanno retto il ritmo dei migliori. Il primo ha inseguito tutta la tappa, dimostrando di essere un duro a morire, uno di quei gatti da salita che se anche cadono, cadono sempre all’impiedi, e pronti a non arrendersi, a non mollare mai. Uno con la tranquillità dei forti, uno di quelli che sa che non sono le decine di secondi di oggi a creare problemi per i minuti di domani. Il basco invece ha lasciato a Torino una cinquantina di secondi, che per uno come lui, soprattutto in salita, non sono qualcosa di benaugurante. Ma Landa è uomo che dà il meglio di sé quando le salite sono lunghe e i chilometri ascensionali si sommano e alla loro somma si sottraggono le difese altrui. Si sa mai cosa potrà capitare.
È difficile dirlo. È complicato pronosticarlo. Anche perché questo Giro assomiglia sempre più a un Giro di resistenza, quello che anche corridori non più di primo pelo, e viene normale pensare a Domenico Pozzovivo e Vincenzo Nibali, ora quinto e ottavo in classifica generale, possono sfruttare a loro favore. L’età insegna cosa poter fare e cosa non fare. E si sa mai che proprio l’esperienza non possa rendere plausibile quello che appariva, sino a pochi giorni fa, improbabile. Nibali dopo l'annuncio d'addio lo pensavano come un mezzo pensionato pronto a rilassarsi dopo una vita di pedalate. Dopo l'Etna erano pronti i coccodrilli ciclistici. Sul Blockhaus i primi cedimenti delle facili convinzioni, oggi l'evidenza che il corridore dell'Astana non è qui per passeggiare nei parchi.
Di sicuro quello che è capitato oggi, quello che i corridori sono riusciti a mettere in scena, è qualcosa che poche volte si è visto negli ultimi anni. La libidine di una tappa così, corsa così, fa scomparire tutte le mezze polemiche della vigilia, quelle che sostenevano che il Giro fosse ormai diventato una corsa di secondo ordine, senza grande interesse.
Carapaz, Hindley, Almeida e Landa stanno in un minuto. È plausibile che si diano battaglia per tutta la prossima settimana. Difficilmente come oggi. Difficilmente con un tentativo di rivoluzione così ben architettato e così ben messo in atto.
Da domani sarà il momento delle grandi montagne e degli arrivi che tirano all’insù, quelli che discriminano un lato della montagna, quella che punta a valle. Il ciclismo, forse, si è dato da fare per combattere la fuga delle persone dall’altura, per contrastare l’inurbamento, per donare fascino e attrattività alla vita montana. È sicuramente un’intenzione nobile, del tutto condivisibile. Chissà se è buona pure per il Giro, che proprio negli arrivi a valle, o lontani da quelle salite “paurose”, ha offerto in questi anni il meglio del suo spettacolo.