il 19° titolo
Quello del Milan è lo scudetto del buon esempio
Il successo della squadra di Pioli è una lezione di felicità psicologica, di sicurezza nei propri mezzi. E di riscatto, dopo anni di buio
“Job is not finished”. A margine di Milan-Atalanta, Stefano Pioli aveva svelato al mondo il mantra motivazionale di Kobe Bryant che, nel 2009, con espressione da sfinge, aveva gelato un giornalista che in conferenza stampa gli rimproverava di non essere abbastanza sorridente per essere avanti 2-0 nelle Finals contro Orlando. “Il lavoro non è ancora finito. È finito, per caso? No. E allora non c'è niente da ridere”. La Black Mamba Mentality era stata però portata all'attenzione dello spogliatoio milanista già qualche settimana prima, dopo il fatale mercoledì sera bolognese in cui l'Inter era ricascata con tutte le scarpe nelle sue ripetute e inspiegabili eclissi. Cinque minuti dopo il fischio finale che cancellava l'asterisco e riportava il Milan in testa alla classifica una volta per tutte, Davide Calabria – capitano in pectore dopo il declino tecnico di Alessio Romagnoli – aveva pubblicato una Instagram Story senza parole e senza tag, senza didascalie e senza morali: una semplice foto. Quella foto.
Da lì quattro vittorie su quattro contro avversarie di livello medio-alto, Fiorentina Verona Atalanta Sassuolo, la messa in pratica di un precetto sul quale a parole siamo d'accordo tutti, ma vede diradarsi bruscamente la scena quando si tratta di passare ai fatti. Era su questo Tourmalet di immane difficoltà mentale che tutto il campionato aspettava il Milan, la squadra campione d'Italia più giovane degli ultimi vent'anni, allenata da un eterno piazzato (nella migliore delle ipotesi) che in bacheca vantava un misero titolo nazionale Allievi vinto con il Bologna nell'estate 2001.
Abbiamo parlato a lungo del buon esempio rappresentato quest'anno dal Milan a 360 gradi, sia economico che tecnico e tattico: una squadra che è superiore alla somma delle semplici individualità, un sistema di gioco senza fronzoli ma estremamente coraggioso esaltato dalla rapidità dei due difensori centrali, un entusiasmo e una leggerezza che hanno resistito anche al vento in faccia delle salite finali: per una volta a incazzarsi non sono stati “i francesi”, come da celebre canzone di Paolo Conte, ma tutti gli altri. La felicità psicologica del Milan 2021-22, molto superiore a quella del corpaccione della sua tifoseria che è arrivata al passo finale con il latte alle ginocchia a causa delle tante mortificazioni subite nell'ultimo decennio, va a braccetto con uno stile comunicativo che è un'ulteriore rivoluzione nella rivoluzione.
Non sappiamo se per convenienza, per straordinarie e insospettabili doti attoriali o se perché ci credesse davvero, ma lungo tutto la stagione Stefano Pioli ha cavalcato molto poco l'alibi che spesso ha fatto capolino nei discorsi di Inzaghi, di Allegri, di Spalletti, Mourinho e Gasperini. Una sola polemica arbitrale, portata all'attenzione della stampa da Paolo Maldini dopo Milan-Udinese 1-1 e l'oscuro episodio del gol di mano convalidato a Udogie. Nessun sospiro stizzito verso la Coppa d'Africa a gennaio, il mancato mercato a febbraio o gli infortuni a raffica nella parte autunnale, forse a causa di una preparazione ad hoc per correre a settembre-ottobre e in primavera. Proprio lo spettacolare non-mercato invernale nonostante gli affanni in attacco e l'infortunio di Kjaer, in totale controtendenza con il vento mediatico che impone a tutte le grandi squadre di spendere per spendere purchessia anche a costo di portarsi in casa i Tuanzebe, i Maitland-Niles e i Caicedo, ha rappresentato un altro segnale di distacco che – sospettiamo – non verrà affatto raccolto. Bisognerebbe liberarsi dalla tirannia del calciomercato, che tra l'altro in assenza di soldi diventa sempre più micragnoso e controproducente, fonte di depressione e mestizia ancora prima che inizino le partite.
Bisognerebbe imparare a fare con ciò che si ha, se è il caso a lavorare meglio, nella peggiore delle emergenze a scrutare all'interno della testa o dei piedi di un giovane (Kalulu, ma non solo: il lavoro su Tonali è stato prodigioso) per convincerlo a cimentarsi in ciò che non ha mai fatto e nemmeno pensato. Ostacolato nella sua carriera da tante piccole meschinità societarie, dalla Lazio all'Inter, e da una grande tragedia sportiva che si porta scolpita nell'anima e tatuata sulla pelle, a 56 anni Stefano Pioli ha finalmente imparato a coltivare l'esempio, come insegna un altro grande emiliano acquisito come Julio Velasco a cui venticinque anni fa, tanti Milan fa, Silvio Berlusconi aveva addirittura proposto di diventare allenatore.
Tra le decine di migliaia di persone che hanno riempito le strade di Milano fino a tarda sera, fino a radunarsi nell'arido piazzale di Casa Milan per aspettare il pullman di ritorno da Reggio Emilia, c'erano anche moltissimi adolescenti: milanisti cresciuti senza lo straccio di una vittoria, ragazzi che a malapena hanno avuto contezza dello scudetto del 2011, cresciuti con pazienza da genitori e nipoti nel mito di incomparabili Milan passati e sbiaditi, il cui confronto con i Luiz Adriano, i Lapadula e i Kalinic presenti suonava come una presa in giro.
Undici anni erano stati nel dopoguerra il record massimo di durata tra uno scudetto e l'altro, tra il 1968 e il 1979, ma allora, almeno, in mezzo erano arrivate una Coppa dei Campioni, una Coppa delle Coppe e un'Intercontinentale, non il vuoto pneumatico di anni trascorsi a cambiare allenatori come calzini o a chiedere scusa “perché non puoi pensare di dominare una squadra come l'Empoli a San Siro”. Luogo comune sui milanisti è che siano un popolo romantico, anche troppo romantico, probabilmente fuori tempo massimo, inadeguato al cinismo da ragionieri indotto dalla considerazione che vincere sia l'unica cosa che conta. In virtù di questo romanticismo, l'unico coro feroce ad personam, sinceramente eccessivo, è stato quello rivolto al povero Çalhanoğlu, colpevole di tradimento della patria com'era capitato a Leonardo nelle feste del 2011.
Sicuramente tutte le generazioni di milanisti coltivano la memoria con dedizione quasi giapponese, tenendo sempre ben presente il bene e il male. Lo dimostra il popolo che ha riempito Milano con un entusiasmo che tiene insieme un decennio disgraziato e la voglia di assembrarsi, di stare insieme, di festeggiare, essere felici per lo stesso motivo. È il calcio, bellezze, e voi non potete farci niente. Viene in mente lo splendido ritornello di “Via” di Claudio Baglioni, anno 1981, anno di piccoli Diavoli che si arrabattavano per rimanere in serie A, senza poter nemmeno immaginare quel che sarebbe venuto dopo: anche all'inferno ci sarà qualcuno a farmi compagnia.