Silvan van der Poel e la logica al Giro
Santiago Buitrago ha vinto la diciassettesima tappa del Giro d’Italia 2022. Richard Carapaz è ancora in maglia rosa con tre secondi di vantaggio su Jay Hindley
Le biciclette, quando incontrano le montagne e rigano e accarezzano il loro asfalto, portano con loro un carico di ambizioni e velleità e sogni da inseguire e desideri da realizzare che non basterebbe la stessa montagna che si scala a contenerle. Ad animarle infatti, ci sono mica solo quelle dei corridori. Serve sommare anche quelle dei tifosi, quelli che aspettano ore e a volte giorni, per qualche secondo appena di passaggio, secondi che si dilatano in decine di minuti ad attendere anche i ritardatari, un seguirsi di evviva, di daidai, di allez. I desideri di chi aspetta sono sempre gli stessi da sempre, ossia scatti e menate, lotta e magari un uomo solo al comando, uno capace di mettere in riga gli altri.
Non è poi diverso dalla magia il ciclismo, lo spettatore attende un’illusione a cui credere, un gioco di prestigio che lo rapisca.
La vittoria nel corso dei centosessantotto chilometri della diciassettesima tappa del Giro d’Italia 2022, quella che univa Ponte di Legno a Lavarone, l’hanno provata in tanti, c’hanno più o meno creduto tutti i venticinque corridori che se ne sono andati via dal gruppo per provarlo ad anticipare sull’arrivo. Ma la prestidigitazione, il trucco di magia che tutto scompiglia e spariglia, l’ha tentato di mettere in scena Mathieu van der Poel sul Menador, ultima salita di giornata.
Che cosa stesse inseguendo l’olandese tra le montagne è una domanda che s’erano fatti in molti dalla Val d’Aosta al Trentino. Perché insistesse a cercare la fuga lui che scalatore non è, lui che, a rigor di logica, avrebbe dovuto cercare di non spargere troppe energie lungo i passi alpini, era qualcosa di difficile comprensione, almeno per chi di logica si cerca di bardare. C’hanno pure la matematica a loro favore, o quanto meno i calcoli matematici che stanno alla base della fisica e della cinetica umana.
La logica e la matematica vanno a braccetto con lo sport. Di logica ci si deve dotare per vincere, così almeno dice chi vince o ha vinto e, dato che noi al massimo chi vince lo guardiamo da un divano o da bordo strada, non ci si può che fidare. E si possono mica fregare coi conti, il bilancio fisico è mica il bilancio aziendale, sistemabile, in bicicletta far opera di maquillage delle cifre è parecchio più difficile. Non se ne esce da tutto questo, per questo, proprio perché non se ne esce, si può fare soltanto una cosa: fregarsene di logica e matematica e affidarsi all’illusione. È bella l’illusione, dà l’idea che tutto può accadere, che in un modo o nell’altro ogni cosa sarà magnifica. Mathieu van der Poel se ne è amabilmente fregato dei “fai attenzione”, “pensaci bene”, “valuta bene”, di quelli che dicono “a rigor di logica”, e ha sperato che bastasse credere all’illusione per realizzarla davvero.
Vai mai così. Le regole che governano il mondo sono rigorose e scientifiche, per questo noiose. Sono fatte di bilancino e calcolo. Una corse a tappe è anche questo: bilancino e calcolo.
Mathieu van der Poel il bilancino non l’ha mai avuto, di calcolo ci sa mica fare granché. A un certo punto si è piantato, chi lo inseguiva l’ha superato, non ha vinto.
A Lavarone ha vinto Santiago Buitrago, perché è uno a cui la salita non gli pesa, è uno scalatore, li chiamano così per questo. E pure perché lui, il colombiano, i conti li ha fatti bene e pure giusti. Si è mica lasciato andare all’illusione lui, il colombiano, ha inseguito la logica, e a seguire la logica si vince, non sempre, ma, se si è forti, spesso.
È stato bravo Buitrago. E bravo pure Gijs Leemreize, che quattro fughe ha centrato e quattro volte è finito tra i dieci. Questa volta secondo, gli era andata peggio a Genova (terzo), sull’Etna (sesto) e a Cogne (nono). Va forte Leemreize, uno che tiene botta così, alla prima stagione piena tra i professionisti e alla prima corsa di tre settimane, è un nome e un cognome da segnarsi, perché finirà davanti spesso.
E sono stati bravi pure Richard Carapaz, Jay Hindley e Mikel Landa. Pure loro corridori a rigor di logica. Sapevano che il Menador era una brutta bestia di salita e sul Menador hanno provato a staccarsi. Ce l’hanno fatta nemmeno questa volta. Sono filati via in tre perché non poteva andare che così. Si temono, tutti e tre conoscono il valore dell’altro, a tal punto da aver messo in dubbio il proprio. Non si fidano perché non sanno se sono davvero superiori. E così si guardano, s’attaccano, ma mai davvero del tutto, perché rimane sempre quella domanda sospesa: e se ne avesse più di me? E visto che è da sciocchi perdere un Giro per gli abbuoni, anche perché Hindley e Carapaz pari sono anche allo sprint, meglio lasciar alla fuga lo spazio sufficiente per arrivare, senza però creare troppi patemi. Il giusto. A logica pure questo.
Gli altri se la fanno mica quella domanda. C’hanno mai tempo di farsela. In mente c’hanno solo la certezza che dovranno inseguire.
Joao Almeida è abituato a inseguire. Pochi metri e poi rientrava. Verso Lavaronone qui metri sono diventati di più, un minuto e dieci, che vuol dire giù dal podio (ora distante cinquantanove secondi) a un minuto e cinquantaquattro da Carapaz. Al portoghese è andata meglio che a Vincenzo Nibali: diciassettesimo al traguardo a cinque minuti. Comunque non male. Dal venticinquesimo in poi i minuti sono saliti a otto e poi nove e via sopra la decina. L’ultimo a transitare sotto il traguardo è stato Andrii Ponomar, a quasi quaranta minuti.
È un Giro ancora, e a ragion di logica, combattuto: tra la maglia rosa e Mikel Landa, terzo, ci sono sessantacinque secondi e Hindley è a tre secondi dalla prima posizione.
Mathieu van der Poel non ha vinto. Non ha superato neppure per primo il Gran premio della montagna del Menador. È un antiscientifico. Se ne è fregato pure della matematica. Forse si perdonerà. Qui l’abbiamo già perdonato. Anzi, non ce n’era neppure bisogno di farlo.