Il metodo Carletto. Vince il Real, Ancelotti alza la quarta Champions
Mai nessun allenatore aveva vinto più di tre volte la coppa europea più importante. Il gol di Vinicius e le parate di Courtois concedono ai Blancos la quattordicesima Champions League
E alla fine è sempre Real Madrid. Anche senza magie o remuntade al cardiopalma. Bastano il gol di Vinicius – al posto giusto nel momento giusto, sul tiro-cross di Valverde – e un Courtois in versione saracinesca. Un 1-0 da grande squadra, questa volta contro un grande Liverpool, buono per festeggiare qua quattordicesima Champions League della storia. Su 17 finali. La prima e l’ultima dei tempi moderni, quel 2014 sembra ieri, nel segno di Carlo Ancelotti. Quattro, come nessun altro nella storia della competizione. Sotto gli occhi di Zinedine Zidane, sugli spalti dello Stade de France, e contro i Reds che furono del leggendario Bob Paisley, entrambi con un successo in meno.
Non ha bisogno di tanti proclami, l’allenatore di Reggiolo. Né di gesti eclatanti al fischio finale: pugni al cielo e faccia di bronzo, due abbracci in primis. A Luka Modric, il suo legionario più geniale. E a Jurgen Klopp, l’avversario da onorare, signore del calcio così diverso nei modi e nelle idee. Perché il metodo Carletto è essenzialità e aplomb. Lo è sempre stato – passi il sigaro con Vinicius – anche in questa edizione di Champions, dove il suo Real sembrava sul punto di morire sempre e infine non è morto mai. Un po’ come la sua carriera, che in troppi davano in picchiata dopo le avventure fra Napoli e Liverpool lato Everton. Un po’ come le Merengues, che non trionfavano da tre anni – per i tempi dello sport, un batter d’occhio – dopo aver monopolizzato i precedenti quattro. Squadra e stratega si sono ritrovati per smentire tutti.
Anche a Parigi. Dove il Real era dato per sfavorito. Invece, dopo una fase ad eliminazione diretta all’insegna della schizofrenia calcistica, ha sfoderato la sua prova più matura. Solida. Lasciando al Liverpool fior di statistiche – 23 tiri contro 4 – ma la sensazione, a chi guardava, di essere sempre in controllo della situazione. Le prove generali sul finire del primo tempo, quando soltanto un millimetrico fuorigioco ha scongiurato il pasticcio della retroguardia inglese sulla zampata di Benzema. Poi il gol partita, minuto 59, un po’ di buona sorte e molta convinzione. Come tutto il Real Madrid. Prima e dopo accerchiato da Salah, l’ultimo a mollare: l’egiziano le ha provate tutte ma Courtois ne ha parate altrettante – straordinario il riflesso all’80’.
E Ancelotti in panchina ha tirato un sospiro di sollievo. Sa che gli è andata bene, con merito, come ad Atene 2007: l’altra delle sue finali di Champions vinte nei 90 minuti, sempre contro il Liverpool. Sa che gli è andata bene come nella lotteria dei rigori contro la Juve e quando rimontò l’Atletico nell’extra time. Anche allora, otto anni fa, c’erano in campo Carvajal, Modric e Benzema. Aggiungiamoci Kroos e Casemiro, esultanti nel 2018: fanno cinque undicesimi della squadra di oggi. Altro che fine di un ciclo, dopo l’addio di Ronaldo. Ora è semplicemente la squadra di Benzema, a Parigi normale per una notte, dopo un’intera stagione da superuomo che gli varrà il Pallone d’Oro.
Dei detrattori di Re Carlo s’era già detto. Lui torna a Madrid e fa doppietta, Liga più Champions. Di nuovo lo accoglie la sua terra, cingendolo d’allor – senza l’ironia delle vecchie canzoni. Perché dalle parti del Bernabeu non c’è niente di più serio del culto della vittoria. Mission societaria e missione di vita. Disse una volta Sergio Ramos: “Il Real Madrid è la squadra di Dio”. L’unica cosa che conta, è che i suoi giocatori credono davvero che sia così.