Il Foglio sportivo
Novant'anni sempre in Gamba
Il mitico coach del basket stava per perdere l'uso della mano quando da ragazzino fu colpito durante la Seconda guerra mondiale: "Volevano amputarmela poi ho riaquistato la sensibilità con il pallone in mano. Il segreto? Avere due p... d’acciaio." Una vita a cercare di migliorare la pallacanestro, "che per me deve essere il secondo sport in Italia"
Se Sandro Gamba si fosse chiamato Alexander Leg gli americani avrebbero già girato un film sulla sua storia. Anche perché gli americani che conoscono il basket adorano il nostro amato ct e già nel 2006 lo hanno inserito nella Hall of Fame dedicata a James Naismith, l’inventore del gioco, un onore toccato solo ad altri due grandi italiani, Cesare Rubini e Dino Meneghin le cui storie, guarda caso si intrecciano con quelle di Gamba. Il basket prima di diventare la sua vita è stata la sua medicina. Senza il basket non ci sarebbe stato un Sandro Gamba perché quel ragazzino probabilmente avrebbe perso la mano destra ferita da una sventagliata di mitra che lo colpì a Milano nei giorni della fine della Seconda guerra mondiale. “Eravamo in tempo di guerra, avevo la mano spappolata. Volevano amputarmela, ma mio padre fortunatamente si oppose con tutte le forze. Un soldato americano mi vide passare dalle parti del comando americano in via XX Settembre con in mano una pallina da tennis… Gli spiegai il mio problema.
Lui mi diede un pallone da basket dicendomi: prendilo a schiaffi, vedrai che riacquisterai la sensibilità della mano. Mi faceva davvero male. Ma ho cominciato a prenderla a sberle… Il consiglio migliore che abbia mai ricevuto. Non lo ringrazierò mai abbastanza. Qualche giorno dopo mi disse: adesso accarezzalo come faresti con una bella donna. Così ho cominciato a palleggiare, a giocare e ho riacquistato l’uso della mano e scoperto lo sport che mi ha cambiato la vita”. Una storia che grazie al talento e alla passione di Massimo Finazzer Flory diventerà presto un “cortometraggio emozionale” con l’aiuto della Fip.
Ci sono da raccontare 10 scudetti vinti da giocatore in 15 anni a Milano, più 3 da assistente di Cesare Rubini. Poi da allenatore 2 scudetti e 2 Coppe Campioni con Varese, 2 Coppe delle Coppe e una Coppa Italia con Milano. L’oro europeo di Nantes e l’argento olimpico di Mosca con la Nazionale. “Anche se come giocatore ho vinto tanto, sono stato un buon giocatore, devo riconoscere che come allenatore sono stato meglio. Mi è sempre piaciuto insegnare e credo di averlo saputo fare. Sono diventato famoso in tutto il mondo. Tutti mi conoscevano come allenatore. Mi volevano anche in America nei college, ma io ho sempre rispettato i contratti che avevo firmato e quando arrivarono quelle proposte non ero libero. Ho sempre studiato il gioco. Nei miei contratti mettevo sempre un mese di stage in Ameria a vedere partite, allenamenti, incontrare gente. Poi mi facevo mandare giornali e libri in Italia. Non era facile come adesso aggiornarsi”.
“Non avrei mai pensato di tagliare così in forma il traguardo dei 90 anni. Pensavo di arrivarci zoppo, gobbo, sordo, senza vista e con il naso rotto… invece ci sento davvero bene, alla faccia di chi dice che lo sport non fa bene… tutte le settimane poi finisco la Settimana enigmistica e tengo allenata anche la mente. Non mi lamento”. Ha festeggiato con la sua Stella, i nipoti, qualche amico. E un po’ di basket in tv. Quello non manca mai nella sua casa di Arese con i muri pieni di libri, ricordi, trofei. “Io sono un martello – dice quando gli chiedi qual è il suo segreto – lo ero quando giocavo e lo sono rimasti da assistente e poi da allenatore. Non ho mai mollato una volta. Anche quando ho avuto dei momenti difficili, di carriera o di salute, mai, mai, mai ho mollato. I miei giocatori dicevano: noi siamo dei duri, ma il nostro coach ha le palle d’acciaio”. Che detto da uno come Meneghin è più di un complimento. È quasi una beatificazione.
D’altra parte il coach è stato uno dei pochi a far sedere Meneghin in panchina e a digliene quattro: “Quando sono arrivato a Varese ho visto che faceva un po’ come voleva. Gli ho detto qui si lavora come in fabbrica. Si comincia a quest’ora e si finisce a quest’altra. Non sono ammessi ritardi. Da quella volta lì non ha più sgarrato”. Il coach non faceva differenze. Trattava tutti allo stesso modo.
È tempo di aprire l’album dei ricordi. La vittoria più bella, l’Europeo del 1983: “Nantes è stata la vittoria meno prevedibile. Tutti pensavano se andrà bene arriveremo terzo o quarti. Invece abbiamo vinto giocando un basket di grandissima qualità, ce lo hanno riconosciuto anche gli americani. Quella era una squadra di 12 uomini fantastici. Tutti di altissimo livello. Uomini veri e grandi giocatori”. Il quintetto ideale della sua carriera. Ci pensa un po’. Poi parte: “Come play sceglierei Aldo Ossola, era il mio play a Varese. Purtroppo non potevo chiamarlo in Nazionale perché non volava. Lui era il figlio dell’Ossola morto a Superga con il Grande Torino e non ha mai preso un aereo in vita sua. Come giocatore per me era il numero uno. Poi come shooting guard non posso che mettere Antonello Riva. Come centro il Dino perché ha segnato un’epoca della pallacanestro italiana. Nessuno si è avvicinato a lui come classe, atletismo e comprensione del gioco. Poi metterei Ivan Bisson, un corner man. A destra o sinistra lui colpiva e poi era un bel difensore sempre ruggente. Sempre senza pensare agli stranieri, metterei Meo Sacchetti in un bel quintetto con tre guardie”. Provate voi a batterli.
Passiamo al basket di oggi. Gamba è spesso in tribuna a vedere la sua Olimpia. Non da semplice tifoso, ma da critico. Quando è il caso sulle pagine milanesi di Repubblica colpisce duro. “Il basket italiano adesso sta aspettando che schizzi fuori qualche nuova stella per avere una nazionale di 12 giocatori 12. Perché la Nazionale traina tutto il movimento. Pozzecco c.t. mi sembra una scelta audace. Lo conosco poco come tecnico, ma di solito la Nazionale la allena gente con più esperienza anche internazionale. Sono curioso. Petrucci ha avuto coraggio. Adesso che siamo tornati alle Olimpiadi è arrivato il momento di vincere qualcosa perché quello che conta è poi arrivare tra i primi tre. Non bisogna accontentarsi. Io ho sempre lavorato per migliorare il basket italiano che per me deve essere il secondo sport in Italia. Lo dicevo sempre anche al mio amico Bearzot. Se mi guardo indietro posso essere abbastanza soddisfatto…
Oggi abbiamo dei buoni allenatori italiani, più preparati di quando allenavo io. Messina e Scariolo hanno fatto le loro esperienze in America e in Europa. A me ha aiutato molto avere un passato da giocatore. Dodici anni ad alto livello mi hanno aiutato a trattare con i giocatori. A capire quando alzare la voce e quando essere più accomodanti. E comunque senza avere carisma anche il miglior giocatore non diventerà mai un grande allenatore”. Parola di chi lo è stato davvero. E non vuole smettere. “Non sto mica a casa sul dondolo. Ci vediamo al Palazzo. Perché meglio del basket da vivo c’è poco. Non vedo l’ora cominci la serie finale tra Bologna e Milano. Il cuore dice Olimpia, sono nato a Porta Vittoria, ci ho giocato e vinto tanti anni. Però sarà una sfida dura, arriverà alla settima. Bologna ha una bella faccia. E poi Messina è un mio allievo, mi chiama ancora a chiedermi il mio parere. Lui che proprio non ne avrebbe bisogno”. I miti non passano mai di moda.