Ridare centralità alla Nazionale per tornare a vincere in Europa
L'esclusione dal secondo Mondiale di fila e gli stenti nelle coppe europee dei club italiani sono legati. Al di là delle cicliche difficoltà del pallone azzurro, servirebbe una riforma e una nuova governance
La mancata qualificazione a Qatar 2022, la seconda consecutiva dopo Russia 2018, ha riportato la disaffezione verso la maglia azzurra ai massimi livelli, perché alla fine si sa: vinciamo tutti ma perdiamo in pochi. E la netta sconfitta a Wembley contro l’Argentina ha messo una pietra tombale sulla generazione di calciatori con la quale Mancini ha vinto un Europeo e portato il record di imbattibilità mondiale a trentasette partite. Per ripartire non servono solo nuovi giocatori, più giovani e motivati, ma anche un atteggiamento diverso, che superi lo snobismo della Nazionale italiana verso amichevoli e partite di minor prestigio. Fa specie il modo in cui è stata affrontata la fase finale della Nations League giocata in casa e la Finalissima contro gli argentini.
Negli ultimi decenni, poi, i tifosi vedono l’Italia come un impiccio all’attività dei rispettivi club, dimenticando, innanzitutto, che sono proprio quest’ultimi che dovrebbero crescere nuovi giocatori. Un dato storico: il periodo d’oro del calcio italiano inizia nel 1982, dalla conquista del terzo Mondiale. Un esempio? Il blocco Juve, che era lo zoccolo duro di quella Nazionale, con l’innesto di due stranieri, giocherà subito dopo tre finali europee consecutive.
Un po’ di numeri. Prima del 1982 i club italiani hanno vinto tre volta la Coppa dei Campioni, tre volte la Coppe delle Coppe, una Coppa Uefa e una Coppa delle Fiere, perdendo rispettivamente, cinque, due, zero e due finali, con cinque squadre. Dal 1982 al 2006 hanno vinto sei Champions League, quattro coppe delle Coppe e otto coppe Uefa, perdendo nove, due e sei finali, considerando che in Coppa Uefa ne abbiamo avuto quattro tutte italiane più una in Champions League; con nove squadre diverse. Dal 2006 a oggi i club italiani hanno vinto due Champions League, una Conference League, perso tre finali di Champions e una di Europa League; con quattro squadre. I numeri, però, da soli non bastano.
Negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso non c’era solo la spinta del Mundial ma anche di un’economia che riversava nel pallone miliardi di lire. Gli arabi eravamo noi che compravamo tutti i giocatori migliori, rendendo la Serie A il campionato più bello del mondo. I più bravi imparavano, tattica e sistemi di allenamento, e poi vincevano con le rispettive nazionali, dai francesi ai tedeschi, dagli argentini agli olandesi, dai danesi ai brasiliani. Un calcio che consumava soldi, con controlli finanziari risibili, e che accecava le masse con il luccichio dei trofei conquistati, continuando a produrre campioni, che però in Nazionale si dovevano accontentare dei podi; mentre a livello giovanile dominavamo l’Europeo Under 21 con tre vittorie consecutive cui se ne aggiungeranno altre due nei primi anni Duemila.
Dall’introduzione del fair play finanziario, 2011, non abbiamo più vinto una Champions League e il divario, economico, tecnico e pure tattico, tra i club italiani e quelli inglesi, tedeschi e spagnoli, si è dilatato sempre di più. La Premier League è diventata il campionato più bello del mondo, nel pubblico, nei numeri, nei diritti televisivi e nei campioni che riesce ad attirare. Ma c’è un aspetto che non va trascurato, le varie governance di Figc e Lega di Serie A, litigando spesso fra di loro, hanno sempre e solo contato sui risultati e, nei momenti economicamente migliori, non hanno saputo costruire alcunché: dagli stadi ai settori giovanili (voci che restano fuori dal calcolo del fair play finanziario, il quale ha comunque cristallizzato le ricchezze esistenti) – non abbiamo un centro di formazione nazionale –, dalle regole finanziarie (viene da chiedersi come mai tanti investitori stranieri continuino ad acquistare club italiani) a quelle della giustizia sportiva. A cascata, dalla Serie B in giù, le cose vanno altrettanto male e non ci decidiamo a diminuire le squadre professionistiche. Infine, è da Italia ’90 che non organizziamo la fase finale di un Mondiale o di un Europeo.
È cambiato pure un altro aspetto. Se le ultime due coppe europee vinte da club italiani portano la firma di Mourinho un motivo c’è. Al di là della dialettica trita e ritrita che non fa nemmeno più ridere, Mourinho nel 2010 ci ha lanciato una sfida che non abbiamo raccolto. Non è un problema solo di ‘risultatisti’ contro ‘giochisti’, è un problema di una scuola di allenatori che nei suoi esponenti di punta è rimasta indietro, non si è aggiornata e rifugge le contaminazioni.
I tonfi della Nazionale sono ciclici: dalla spedizione in Brasile del ’50, male organizzata, alla mancata qualificazione del ’58, da quella cilena del ’62 alla Corea del Nord del ’66, dall’ammutinamento del 1974 alla figuraccia dell’86, dalla Corea del Sud del 2002 a quelle del 2010 e 214, senza contare tutte le volte, ben cinque (l’ultima nel 1992), che non ci siamo qualificati alla fase finale del Campionato d’Europa; nel 2004, tra sputi e presunti biscotti, ne siamo usciti malissimo. Cosa cambia rispetto ad allora? Cambia che il calcio italiano sembra incapace di produrre nuove generazioni di campioni, ma questi, come scritto sopra, dovrebbero arrivare dai club che preferiscono fare plusvalenze invece che crescere i nazionali di domani. La Nazionale esprime la salute di un movimento, quindi eccoci qua. Ed è quasi curioso che in questi anni Duemila siamo stati capaci di giocare quattro finali, perdendone due (una, purtroppo, storica nel risultato negativo) ma vincendo un Mondiale e un Europeo che mancava dal ’68.
La fortuna? "La gente ha paura di ammettere quanto conti la fortuna nella vita. Terrorizza pensare che sia così fuori controllo. A volte in una partita la palla colpisce il nastro e per un attimo può andare oltre o tornare indietro. Con un po’ di fortuna va oltre e allora si vince. Oppure no, e allora si perde", dice il protagonista del film Match Point. Vale per tutti i grandi cicli sportivi, ognuno col suo peccato originale, vale per tutte le cose della vita. Gli italiani amano stare sul carro del vincitore e fuggono come la peste gli sconfitti, tranne poi leggerne i libri perché fa tanto storytelling, ma evidentemente hanno disimparato anche a vincere. La Nazionale italiana ha vinto quattro Mondiali, due Europei, due coppe internazionali, un oro Olimpico e cinque europei Under 21. Meriterebbe, finalmente, una governance meno improvvisata e all’altezza dei trofei conquistati.
Il Foglio sportivo