la finale

L'Nba vinta dai Golden State Warriors è un salto nel tempo

Andrea Lamperti

Dei quattro titoli di Golden State nell’era-Steve Kerr, questo è indubbiamente il più speciale, in un certo senso il più romantico. Stephen Curry è stato l'Mvp delle finali

Le parole dei Golden State Warriors dopo la vittoria in Gara 6 a Boston di questa notte, che ha sancito il definitivo 4-2 nelle Finals e il settimo titolo nella storia della franchigia, suonano come un viaggio nel tempo. E non potrebbe essere altrimenti, per i traguardi che questo gruppo ha raggiunto nell’ultimo decennio, e soprattutto per il percorso umano che lo ha portato fin qui, nella terra promessa, per la quarta volta dal 2015 a oggi.

 

“Viene la pelle d’oca a pensare ai momenti e agli episodi che abbiamo dovuto superare per essere qui”, ha raccontato Stephen Curry. “Abbiamo portato tutto sulle spalle per tre anni, non sapendo come sarebbe finita. Abbiamo continuato a crederci, ogni giorno. E quando abbiamo potuto cogliere l’opportunità, l’abbiamo fatto. Per questo penso che sia un titolo diverso e ho così tante emozioni. Ora abbiamo quattro titoli. Io, Dray, Klay, Andre… è speciale, è speciale".

 

Dei quattro titoli di Golden State nell’era-Steve Kerr, questo è indubbiamente il più speciale, in un certo senso il più romantico. Perché è una vittoria che profuma di consacrazione, perché è la prima del post-Kevin Durant, perché emette un’ineluttabile sentenza: siamo davanti a una “Dynasty”, come direbbero oltreoceano, a una squadra che ha fatto - e cambiato, in senso tecnico - la storia del gioco. E perché per tutta l’organizzazione di San Francisco rappresenta la chiusura, perfetta, di un cerchio.

 

L’Mvp è Stephen Curry, per la prima - agognata - volta in carriera, complice l’ingombrante presenza di Durant nel 2017 e 2018, e la discutibile assegnazione del premio a Iguodala nel 2015. Stavolta, non c’è stato dubbio: Steph ha avuto un impatto sulla serie incredibile e quantomai decisivo. Una tripla dopo l’altra - 31 su 71 in totale, per un clamoroso 43.5% (nonostante lo 0/9 in Gara 5) - il numero 30 ha costretto la difesa di Ime Udoka a scelte impossibili, con i suoi 31.2 punti a partita e il suo infinito raggio di tiro. Si può dire che c’era una NBA prima dell’arrivo di Curry, e ora ce n’è un’altra; e come è giusto che sia, nel leggendario palmares della point guard adesso c’è anche l’ultimo grande riconoscimento personale che mancava all’appello. A proposito di chiusura del cerchio.

 

Quando è stato chiesto a Steph un commento su questo, ha risposto - quasi seccato dalla domanda - di voler parlare di “noi”, e non di sé stesso. Di voler parlare degli Warriors. La franchigia che spende di più in salari di tutta la lega, sì, ma a cui niente è stato regalato dal destino, anzi.

 

Curry e compagni sono stati messi duramente alla prova. Nelle ultime due settimane, dalla difesa dei Celtics e dalla brutta sconfitta casalinga con cui hanno iniziato la serie; ma soprattutto, riavvolgendo il nastro, dall’infinita serie di avversità che hanno dovuto superare dal 2019 a oggi. Anni in cui hanno dimostrato di saper tenere accesa quella fiammella e custodire quel dna vincente, anche durante un lungo e indesiderato passaggio dal purgatorio. Le due stagioni - una sul fondo della lega, l’altra conclusa al Play In - segnate dai gravi infortuni di Klay Thompson, la cui storia era fonte di ispirazione già a gennaio, quando tornava in campo dopo quasi 1.000 giorni di assenza… figurarsi ora che si è messo un altro anello al dito, da protagonista. “Klay ha attraversato di tutto”, ha detto coach Kerr. “Giocare così dopo due anni è difficile. Il suo ritorno è stato speciale, ha avuto un significato incredibile per l’organizzazione".

 

 In una lega che, per la sua stessa struttura, prevede un sistematico ricambio ai vertici, sei viaggi alle Finals in otto anni sono sinonimo di lungimiranza manageriale - medaglia al valore per l’operato di Joe Lacob (proprietario) e di Bob Myers (general manager) - e di cultura vincente. Una mentalità contagiosa che ha trovato ispirazione in due figure, prima di tutti gli altri: Steve Kerr e Draymond Green.

 

Dopo quattro gare piene di difficoltà (e i soliti attriti), proprio Draymond ha chiuso la sua serie con due prestazioni maiuscole in Gara 5 e 6. Due prove, difensivamente e non solo, all’altezza dell’etichetta con cui lui per primo si è sempre identificato: un vincente. Nel momento del bisogno, si è confermato un’altra volta il punto di riferimento emotivo dello spogliatoio e il “segreto” di una squadra che in meno di un decennio è riuscita a raggiungere dei risultati paragonabili solo a quelli di Bulls, Lakers e Spurs negli ultimi trent’anni.

 

Dietro le quinte nel trionfo di Golden State, questa volta con un ruolo più da mentore che da specialista difensivo, c’è un altro dei “soliti sospetti”: Andre Iguodala, tornato dopo due anni in quella Baia che chiama “casa”, per essere anche lui parte della chiusura del cerchio. E al fianco del nucleo storico, un supporting cast che si è dimostrato pronto per il palcoscenico, nonostante fosse per tutti una nuova esperienza. Con storie di rivincite personali, come quelle di Andrew Wigging e Gary Payton II; e con l’exploit (in queste Finals, a intermittenza) di Jordan Poole, che sta illuminando la via per chi insieme a lui avrà il compito di dare un domani alla dinastia: Kuminga, Wiseman e Moody.

 

Prima di tutto, però, è il loro titolo. Steve Kerr in panchina. Stephen Curry, Klay Thompson e Draymond Green in campo. Il titolo di chi ha plasmato tutto questo, lo ha tenuto in vita nelle avversità e ora, dopo dei “giri immensi”, è tornato. “Certi amori”, certe dinastie, sembrano non finire mai.

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