paltrinieri e gli altri
Il nuoto italiano porta a casa medaglie e il merito è anche di chi comanda
La squadra tricolore ha chiuso la diciannovesima edizione del Mondiale con un medagliere record: cinque ori, due argenti, due bronzi. Perché dovremmo cambiare una federazione che funziona così bene?
Che “uno vale uno” e che il limite dei mandati sono delle boiate pazzesche (copyright rag. Ugo Fantozzi), l’hanno capito gli stessi propugnatori, cioè i Cinque stelle. Il talento, se c’è, va liberato e valorizzato e non rispedito in panchina per statuto. Per approfondire il tema e trarne qualche lezione, possiamo osservare quanto è accaduto alla Duna Arena di Budapest dove si sono appena conclusi i Mondiali di nuoto (in piscina, altrove continuano). La squadra italiana ha chiuso la diciannovesima edizione con un medagliere record: cinque ori, due argenti, due bronzi. Pensavamo (quorum ego e mi cospargo il capo di cenere) che sarebbe stato difficile superare il primato di Gwangju (Corea del sud) 2019: tre ori, due argenti e tre bronzi. Il dato interessante è che c’è un costante miglioramento. A Budapest, nel 2017, le medaglie erano state sei, tre ori e tre bronzi.
Uno non vale uno, infatti pochi atleti, non solo in Italia ma nel mondo, sono come Gregorio “SuperGreg” Paltrinieri il cestista mancato di Carpi che dopo l’oro dei 1.500 metri in vasca ha conquistato due medaglie nelle acque libere, bronzo nella staffetta 4x1,5 km e argento nella 5 km. E gli manca la 10 km dove è stato terzo a Tokyo. Uno non vale uno, e uno non vale per tutti, per fortuna, perché questi sono i primi Mondiali (dal 2003) senza la Divina Federica Pellegrini, ma non se n’è accorto nessuno, a parte lei che ha notato, giustamente, che nella sua gara, i 200 stile libero, non c’è ricambio. Quando un fenomeno occupa la casella numero per anni senza mollare nulla agli avversari, alle sue spalle si crea un vuoto. Ma che vogliamo fare, pagarlo per non farlo gareggiare come gli organizzatori del Giro d’Italia con Alfredo Binda? O escluderlo per statuto?
L’altro aspetto riguarda il valore del lavoro che sta alle spalle degli atleti. Molti dei dirigenti federali, dal presidente Paolo Barelli in giù, sono in carica da più di un ventennio e, con altri ruoli, anche da prima. Il nuovo sistema di organizzazione che sostiene gli atleti nei loro club o nei centri federali, il procedere di concerto tra centro e periferia, è stato inaugurato da almeno venticinque anni. Fu dopo gli ottimi Europei di Siviglia del 1997 che il compianto Alberto Castagnetti, l’allenatore che sussurrava ai talenti, da Giorgio Lamberti a Domenico Fioravanti fino a Federica Pellegrini, spiegò: “La differenza rispetto a prima è che ora, se nasce un bravo nuotatore a Bolzano o a Messina, non me lo lascio sfuggire”.
Castagnetti è morto improvvisamente nel 2009, ma quasi tutti quelli c’erano vent’anni fa sono ancora qua. Il segreto è la continuità. Barelli a molti non sta simpatico, forse perché è il capogruppo di Forza Italia alla Camera, forse per altri motivi, ma, numeri alla mano, è uno dei dirigenti più vincenti della storia dello sport italiano. In piscina siamo stati reietti fin quasi al Terzo millennio. A livello olimpico il primo oro l’abbiamo vinto dopo cento anni di gare, a Sydney 2000. Da allora ci siamo tenuti ai vertici, competendo accanto ad avversari che hanno impianti, strumenti, possibilità che noi possiamo solo immaginare. A Milano, per dire, l’impianto più bello è privato: l’Aquamore della Bocconi. Eppure i nostri nuotatori, da nord (di più) a sud (meno, ma i migliori, come Benedetta Pilato la ranista rampante, non restano indietro) continuano a vincere. E quindi perché dovremmo cambiare una federazione che funziona per legge? Squadra che vince non si cambia. Dovrebbe valere per ogni aspetto della vita, dalla guida di un paese in giù.