Arnaldo Pambianco e l'abbandono all'amore
È morto il vincitore del Giro d'Italia del 1961. Il Gavia, lo Stelvio, le vittorie davanti ad Anquetil, Gaul, van Looy e Suarez e quella vita in due alla quale non si può rinunciare
Quando si battono Jacques Anquetil, Charly Gaul, Rick Van Looy e Antonio Suarez al Giro d’Italia non si è gente normale e neppure si è gente normale se si passa terzi sopra il cocuzzolo del Passo di Gavia, l’8 giugno 1960 – la tappa più leggendaria del Giro d’Italia dopo la Cuneo-Pinerolo del 1949 – quando nessuno dei corridori neppure immaginava che ci fosse un altro valico oltre lo Stelvio che portava a Bormio.
Perché la verità è che i ciclisti professionisti non son mai stati dei mostri in geografia, tranne per ciò che riguarda le strade intorno a casa. Perciò Arnaldo Pambianco nel 1961 cuccò Anquetil sulla discesa del Passo del Muraglione, che sta a un pugno di chilometri dalla bottega di macellaio dei Pambianco a Bertinoro.
“Anquetil mangiava il panino con tutta la carta oleata e allora ho pensato che era cotto per bene. Così ho dato una bella tirata al gruppetto e lui è rimasto indietro co stò panino in mano. Poi sono andato da Liviero e gli ho detto: “Dai Liviero tira un poco che a Firenze, all’arrivo, ti tiro la volata e vinci”. Dopo sono andato da Giusti e Ciampi e ho detto loro la stessa cosa e così con gli altri due della fuga. Così, per vincere una tappa del Giro del Centenario, che c’erano un bel po’ di soldi in ballo, tutti mi davano una mano e la fuga andava via bella liscia. Poi, a Firenze, per non far differenze, non ho tirato la volata a nessuno e si sono arrangiati tra di loro”.
Ha indossato la maglia rosa a Firenze in questo modo e se l’è tenuta fino a Milano.
“Beh, il Muraglione lo conoscevo bene, perciò se si metteva bene li mettevo nel sacco tutti. Per il resto del Giro mi sono arrangiato come potevo. Insomma non è che facevo tanti calcoli: avevo la maglia rosa e la dovevo tenere. Questa era la tattica”.
Insomma non si è gente normale se si fa il garzone di macelleria (anche se la macelleria è di tuo padre) come Coppi e se si vince il Giro d’Italia sullo Stelvio proprio salendo dalla parte di Trafoi, la prima volta dopo il 1953, come Coppi.
Però anche se non si è gente normale non si riesce a sopportare per molto tempo la mancanza di chi si è amato per tanti anni e così ci si lascia andare, anche se nel 1961 si è battuto i gran carognoni: Anquetil, Gaul, Van Looy, che correvano quel Giro perché gli sponsor avevano dato a Torriani un bel po’ di grano per onorare il Gran Giro del Centenario dell’Unità d’Italia.
Si può staccare Anquetil sullo Stelvio un po’ per sé e un altro bel po’ per raccontarlo a casa a Fabiola. “L'ho lasciato lì in mezzo alla neve e me ne sono andato. Lui mi guardava con una faccia dispiaciuta. Volevo salutarlo, ma mi pareva brutto”. Però se non c’è Fabiola, alla fine, non è neppure valsa la pena di staccarlo e di vincere quel benedetto Giro d’Italia. Se non si può condividere c’è poco di bello. Quasi niente.
Così, poco dopo Fabiola, anche Arnaldo se n’è andato.
L’ultima volta che l’ho visto m’ha raccontato un sacco di sciocchezzuole boraccistiche che riguardano soprattutto il Tour de France del 1965 – quello in cui faceva il “pesce pilota” per Felice Gimondi – che fanno ridere, ma che francamente, suvvia, mica si possono mettere in piazza.
Abbiam bevuto un bicchiere di sangiovese per uno e abbian brindato.
“Alla tua, Arnaldo! E a Fabiola!”.