Vingegaard ha fatto cambiare strada al Tour de France
Sul Col du Galibier e sul Col du Granon la Grande Boucle si trasforma. Pogacar va in difficoltà negli ultimi chilometri dell'11esima tappa e perde la maglia gialla
I vecchi di Briançon, almeno quelli che hanno o avevano una qualche dimestichezza con la montagna, sanno benissimo che ogni cima, ogni passo, ha un santo protettore, ma che nessun santo s'è mai preso la briga di proteggere il Col du Granon. D'altra parte quale santo si prenderebbe una montagna così brulla, così scomoda, così ispida? Eppure sarebbe forse servito un santo a quella processione di anime sole che su di una bicicletta puntavano alla cima avvolta da un cielo lattiginoso che, a dirla sempre con i vecchi di Briançon, quando i monti c'hanno il latte in testa, portano sempre sconvolgimenti.
Sono mica sempre brutti gli sconvolgimenti, anche se forse i vecchi di Briançon la pensano diversamente. Il ciclismo però sta mica a sentire i vecchi di Briançon e negli sconvolgimenti, quando sono a pedali, ci sguazza, si esalta, sorride, con garbo e delicatezza. Perché in uno sconvolgimento c'è sempre uno, almeno uno, che lo genera e uno, almeno uno, che lo subisce. E quando si sa cosa vuol dire pedalare si è mai troppo sguaiati, si mantiene un certo aplomb.
In cima al Col du Granon Jonas Vingegaard sorrideva con quel suo sorriso sobrio e per bene, dolce, incastonato in quel suo viso sobrio e per bene, da ragazzetto che sembra essere lì per caso, timoroso per inesperienza. La bicicletta non ha una bella influenza sul danese. Perché in bicicletta Jonas Vingegaard è tutto tranne quel tipo lì, quello che si vede, o forse è meglio dire si scorge, una volta sceso di sella e che verrebbe da dargli un puffetto sulla guancia e dirgli, su forza animo c'è niente da temere.
Non l'ha fatto nessuno oggi. Forse in passato sì, chissà, ma certamente non oggi. Perché oggi, e non solo da oggi, tutti sapevano chi era Jonas Vingegaard: era quello che l'aveva fatta grossa, che aveva riscritto quello che si pensava già scritto. E a penna, mica con la matita che si può cancellare.
L'ha fatta grossa sì Jonas Vingegaard. Perché il Tour de France che doveva essere di Tadej Pogacar, perché non poteva che essere così, almeno si pensava, ha deciso di svoltare improvvisamente, di cambiare direzione, di prendere un'altra strada, quella del danese con la maglia che è un dipinto o almeno aveva ambizione di esserlo. Domani non la vedrà nessuno quella maglia che ambiva a essere un dipinto addosso al danese, ne vestirà un'altra, una tutta gialla, l'onore che il Tour, ormai da più di cent'anni, riserva a chi guida la classifica generale.
Il Tour de France che doveva essere di Tadej Pogacar, ora è di Jonas Vingegaard. Lo è da prima della linea d'arrivo dell'undicesima tappa, lo è per lampante dimostrazione di forza. Eppure, nonostante questo viene da chiedersi se continuerà a essere suo, e non per poca fiducia nei suoi confronti o troppa negli avversari. C'entra niente tutto questo, è altro a contare. Perché se questa Grande Boucle una cosa ci ha insegnato è che delle apparenze se ne frega ampiamente e, soprattutto, non è un romanzo con una trama definita, ma un libro di racconti che segue un filo rosso tutto suo che a noi sportivi da divano non è concesso conoscere. L'unica cosa che sappiamo, perché è evidente, è che è un gran bel filo rosso, uno dei migliori canovacci messi in scena da quella grande commedia dell'arte che è il ciclismo.
L'atto undicesimo è una tappa con quasi trenta chilometri sopra i duemila metri – che dicono essere il discrimine tra i bravi e i fortissimi –, un pedalare su e giù dal Col du Galibier prima dell'inerpicata sul Col du Granon, ossia una cinquantina di chilometri di salita ufficiali, che quegli ufficiosi sono un macello contarli e quindi gli organizzatori non li contano e non li mettono sul libretto di gara. E in una tappa con oltre una ventina di chilometri sopra i duemila metri doveva per forza, si sperava, succedere qualcosa di importante. È successo ben di più di qualcosa. Ed è successo per ben più tempo di quello che potevamo immaginare, anche a star larghi e ottimisti con le aspettative.
Già sul Col du Galibier l'incedere del gruppo si è trasformato in un pellegrinaggio a piccoli gruppetti. La Jumbo-Visma ha messo tutti in fila, Primoz Roglic ha attaccato e attorno a lui erano rimasti in pochissimi: Vingegaard, Pogacar, Thomas. Mancavano oltre cinquanta chilometri all'arrivo e quando i corridori iniziano ad attaccarsi a oltre cinquanta chilometri dall'arrivo, oltre una ventina di questi sopra i duemila metri, va da sé che la gioia, una piena e dannatissima goduria, penetra ed esplode in chi osserva chi su di una bicicletta è alle prese con il cuore che accelera, i muscoli che si scaldano sino ad avvicinare il punto di bollore e l'ossigeno che sembra non bastare mai.
Roglic e Vingegaard hanno provato a mettere in mezzo Pogacar, incrinare la sua sicurezza, spossarlo per renderlo inerme. Ci sono mica riusciti, sul Galibier. Pogacar ha risposto sempre, non ha perso un metro, s'è messo pure a ribattere agli scatti scattando. Poteva fare diversamente. Davvero poteva fare diversamente? È mica corridore di tattica lo sloveno, lui è uno di quelli che non vuole fare di conto, perché far di conto non è roba per lui.
A Pogacar è andato tutto bene sino a quando le montagne avevano la protezione di un santo, poi è arrivato il Col du Granon ed è cambiato tutto. Jonas Vingegaard è scattato. Pogacar non è riuscito a seguirlo, ha abbassato lo sguardo al suolo, poi l'ha alzato verso il cielo, ma il cielo non ha risposto, allo stesso modo delle sue gambe.
Ha incassato il colpo, un colpo di quasi tre minuti che si sono trasformati in due minuti e ventidue di ritardo in classifica generale, in un Tour compromesso. O almeno così appare oggi, che è mica sempre vero che ciò che è compromesso oggi lo sarà anche domani. Perché domani c'è l'Alpe d'Huez (dopo Lautaret e Croix de Fer), c'è un altro capitolo che non è un capitolo, ma un nuovo racconto nel quale tutto può accadere, che tanto nulla, in questo Tour de France, segue un copione razionale. E quanto è bella l'irrazionalità nel ciclismo, quanto riempie i pomeriggi, i pensieri, quanto riesce a cullarci nell'idea che questo Tour de France riassume il tempo e il luogo giusto in cui essere. Un tempo e un luogo giusto che non dimenticheremo tanto in fretta.