Tour de France. A m'arcord questa scalata all'Alpe d'Huez
In cima all'Alpe ha vinto Thomas Pidcock. L'ha fatto prendendo lo slancio dalla discesa del Galibier e trascinandosi con lui Chris Froome, che finalmente sembra essere riuscito ad andare in fuga dai dolori. Pogacar prova ad attaccare Vingegaard, che però non perde un metro
Non ci fosse stato Thomas Pidcock, la dodicesima tappa del Tour de France si sarebbe perfettamente potuta riassumere in una frase: a m'arcord, io mi ricordo. Perché là davanti era un ricordo di grandi azioni e grandi speranze che da un po' di tempo hanno iniziato a sfarfallare lontano dalle posizioni di oggi. Che a m'arcord di chi era Chris Froome, almeno sino a quella dannatissima caduta nella ricognizione della cronometro del Giro del Delfinato del 2019. Che a m'arcord di quanto si parlava, e assai bene, delle magnifiche sorti future di quello scricciolo di corridore venuto dal Sud Africa che rispondeva, e risponde, al nome di Louis Meintjes. Prometteva di essere un abitudinario dei podi, o quanto meno delle prime posizioni, è finita mica come poteva andare. L'Alpe d'Huez è stato terreno dei ricordi, di quelli che abbiamo e di quelli che avremo.
A m'arcord. Andrà bene per i prossimi anni, perché lo diremo a m'arcord ripensando che proprio lì, sull'Alpe d'Huez avevamo un giorno, questo giorno, il 14 luglio dell'anno del Signore 2022, visto il primo assolo di Thomas Pidcock al Tour de France. Il suo pianto di commozione, quella di chi non ci crede davvero a quello che ha fatto, perché quello che ha fatto è entrare in una lista di nomi che comprende gran parte del meglio della storia del ciclismo. Saranno gli anni a venire a dirci se tutto ciò è stato un abbaglio, se quell'a m'arcord, sarà di ammirazione o di rimpianto. Le premesse dicono che difficilmente prevarrà la seconda ipotesi, che è mica uno qualsiasi Thomas Pidcock, uno che ha già fatto parlare di sé, che continuerà a far parlare di sé, soprattutto se riuscirà a evitare di farsi risucchiare in quella smania che rende gli anarcoidi dei miti ragionieri e che si chiama classifica generale.
Ha vinto Thomas Pidcock in cima all'Alpe d'Huez. Ha vinto con uno scatto che la salita era circa a metà e dopo un pellegrinaggio di pedalate facendo a spallate in quel corridoietto d'asfalto che i tifosi concedevano ai corridori.
È un colpo d'occhio incredibile l'Alpe d'Huez quando concede i suoi favori al Tour de France, una sorta di capolavoro a metà tra puntinismo e astrattismo, che per gustarselo appieno servirebbe allontanarsi da essa, salire verso il cielo, gravitare ad altitudini ben maggiori. Perché a rasoasfalto si non si riesce a gustarsi pienamente quello spettacolo di colori che tiene assieme tutti i colori del creato.
E a ripensare, tra un po' di anni, alla giornata di oggi, quell'a m'arcord che diremo non avrà come sottofondo le note lievi di Nino Rota, ma una chitarra che passa dal Re minore al Do, dal Si bemolle al La7 passando per il La4 per poi virare ancora al Re minore a al Do. A quel vecchio e a quel bambino che si presero per mano giù dal Galibier, per tornare assieme sugli avanguardisti del mattino e trasformarsi loro stessi in avanguardia ciclistica. Il ragazzino che, forse, sarà campione, che si ritrova a scendere e guidare il campione che sta provando con tutta la sua forza a ritornare se stesso, in fuga dai dolori oltre che dal gruppo.
L'Alpe d'Huez è stata anche un avviso a tutti, un ponte lanciato verso il futuro che potrebbe non avere solo un'arcata per unire le Alpi ai Pirenei, ma che potrebbe prevedere altri piloni e ben più vicini. L'avviso l'ha dato Tadej Pogacar, un avviso sussurrato, che si è palesato con due scatti severi sì, ma nemmeno troppo convinti, due scatti fatti più per vedere l'effetto che fa, che per ribaltare la corsa. Anche perché non si può ribaltare una corsa come il Tour di questo anno con un allungo così a pochi chilometri dall'arrivo. Serve altro. E ci sarà tempo e salita per provarci. Il minimo indispensabile Pogacar l'aveva già conquistato ben prima degli scatti. E per merito altrui, di quei gregari meravigliosi che Jonas Vingegaard può vantare. Il gruppo s'era sciolto, ma non disperso. Perché in tanti hanno capito che andar su come quei due non è concepibile, è un'ipotesi nemmeno da prendere in considerazione, e così van su a sentimento, ognuno al proprio passo, uno staccato dall'altro quasi fosse un dono per i tifosi che in questo modo si godono l'incedere di ogni corridore.