Tour de France. Hugo Houle ci ricorda perché amiamo il ciclismo
Il corridore canadese vince la sedicesima tappa del Tour de France. Ha sorpreso tutti Hugo Houle, perché ci si pensa mai davvero che corridori così possano vincere tappe così. Per fortuna però questo accade
A scorrere i nomi, ventinove, che a inizio tappa si sono infuturati dal gruppo per inseguire il traguardo di Foix, quello della sedicesima tappa del Tour de France, con l’idea, parecchio felice, di cambiare il Tour, il loro, il nome di Hugo Houle stava se non in fondo, quanto meno a metà dei pensieri degli altri compagni d’avanguardia. Perché a uno come Hugo Houle ci pensa mai nessuno. E non perché vada piano uno come Hugo Houle, è arrivato pure terzo a Saint-Etienne – anche lì in fuga –, ma perché si pensa mai a quelli tignosi che vanno forte ovunque, si fa una fatica cane a staccarli, ma difficilmente trovano il guizzo per staccare gli altri. C'è poco da fare, va così: si pensa sempre a quelli che eccellono in qualcosa, o quanto meno fanno credere a tutti di eccellere in qualcosa, gli altri, tutti gli altri, li si considerano riempitivi da ordine d’arrivo.
Hugo Houle era uno veloce, ma anche uno buono a fare decine e decine e pure centinaia di chilometri a tirare il gruppo. Era quello il suo mondo. Almeno prima di decidere che quel mondo valeva la pena di espanderlo, che vento in faccia per vento in faccia era meglio prenderlo per inseguire ciò che quasi mai si acchiappa, la vittoria, ma se la si acchiappa… C’era mai riuscito, almeno in una corsa che non fossero i campionati nazionali canadesi (o quelli panamericani) a cronometro. Doveva andare ancora avanti questa attesa, almeno a scorrere i nomi, ventinove, che si erano infuturati verso Foix. Che con gente come Alexandr Vlasov, Dani Martinez, Damiano Caruso, Dylan Teuns, Tim Wellens, Wout van Aert e compagnia, vuoi che vinca Hugo Houle?
Ha vinto Hugo Houle. Ha vinto d’intelligenza e gambe, prima sorprendendo il gruppetto di quelli che stavano meglio prima dell’inizio dell’ultima salita, il Mur de Péguère, poi sorprendendo ancora gli inseguitori mentre sentivano dalle radioline che il distacco non diminuiva nonostante accelerazioni (in realtà poche), cambi di ritmo (qualcuno in più). Ha sorpreso tutti Hugo Houle, perché ci si pensa mai davvero che corridori così possano vincere tappe così. Eppure sono proprio corridori come Hugo Houle a ricordarci perché amiamo questo sport, e lo amiamo visceralmente e nonostante tutto, perché a volte, più che a volte, ci concede il dono dello stupore, ci concede di trovarci a essere contenti per azioni che ci sorprendono, per protagonisti che mai avremmo creduto di ritrovare lì, lì davanti, a donarci questo stupore.
Sotto lo striscione d’arrivo di Foix, Hugo Houle ha indicato il cielo, ha dedicato la vittoria al fratello ucciso da un automobilista dieci anni fa. È passato del tempo, Hugo non ha dimenticato, si può mica dimenticare, però, proprio grazie al tempo, si è alleggerito, pian piano, di quel fardello, ha detto, e alleggerendosi, oggi, è riuscito a trovarsi leggero in salita, tenendo distanti quel manipolo di corridori che, forse, pensavano che uno come Hugo Houle non potesse vincere, che sarebbe stato ripreso.
Dietro al canadese, il primo a vincere dopo il primo ad aver vinto al Tour de France, Steve Bauer – seconda tappa, anzi prima perché il giorno precedente si corse il cronoprologo, nella Grande Boucle del 1988 – sono finiti Valentin Madouas, Michael Woods e Matteo Jorgenson, alla terza fuga centrata e portata all’arrivo, mica male per uno che ha ventitré anni e continua a promettere di essere un gran birbone. Più indietro ancora Alexandr Vlasov, staccato di un minuto e quaranta, ma quattro minuti abbondanti davanti al gruppo della maglia gialla. Il russo (si può dire ancora russo, viste le bandierine vietate?) ha recuperato tre posizioni, ora è ottavo e non sembra ancora soddisfatto.
In una tappa sotto un sole che tirava scemi e che ha costretto Marc Soler a una giornata ad aprire la strada alla Voiture balai, che altro non è che il raccoglitore delle anime in pena del ciclismo, Tadej Pogacar ha provato a testare le gambe e soprattutto la testa di Jonas Vingegaard.
Le ha testate sul Port de Lens, due scatti, più uno in discesa. Le ha trovate in perfetta forma, assolutamente rodate e pronte per non perdere un metro, per poter inscenare un altro tête-à-tête, un altro appuntamento d’amore e violenza. Domani però, che oggi era superfluo riprovarci sul Mur de Péguère, che certe salite, irte e ascensionali, servono più per far bella figura con gli statistici che per mettere secondi a decine o minuti tra sé e gli altri. Domani i Pirenei, i dannati Pirenei, propongono un piccolo compendio di cosa sono e possono essere: con Aspin, Val Luron e Peyragudes ci sarà spazio e modo per capire se il Tour de France, questo bellissimo Tour de France, continuerà a procedere sui binari di Vingegaard o cambierà di nuovo direzione.