Il Foglio sportivo
Hanno fatto neri anche gli All Blacks
Gli imbattibili del rugby giocano male, sono distratti e hanno perso due volte con l’Irlanda
Le certezze nel mondo del rugby sono poche, ma stabili. Una di queste, la più radicata, è quella secondo cui gli All Blacks sono una squadra pressoché imbattibile, soprattutto in casa, dove hanno un ruolino di marcia spaventoso.
Ebbene, questa certezza è crollata questa estate sotto i colpi della nazionale irlandese, in tour in Nuova Zelanda nel corso della finestra internazionale estiva.
L’Irlanda ha battuto i tuttineri due volte, portandosi a casa la serie al meglio di tre partite e riempiendo i pub di Auckland e dintorni di tifosi che hanno potuto festeggiare assieme ai loro beniamini un successo inaspettato.
Se però, vista da Dublino sembra una storia meravigliosa, quella di una caduta casalinga degli dei che non avveniva dal 1994, anno dell’ultima sconfitta degli All Blacks in una serie domestica, in Nuova Zelanda ha scatenato un vespaio di polemiche attorno a Ian Foster, che nel 2019 sembrava l’uomo perfetto per guidare la nazionale più iconica del mondo del rugby.
Foster, 57 anni appena compiuti, è stato un giocatore di medio livello, di quelli che giocano tanto nei campionati provinciali neozelandesi, ma che non arrivano mai a vestire la maglia nera con la felce bianca sul petto. I suoi successi più grandi arrivano da allenatore in seconda: di fianco a Graham Henry guida la Nazionale alla vittoria dei mondiali casalinghi del 2011, ma è dall’anno successivo al 2019, con Steve Hansen, che entrerà nella leggenda.
Quegli All Blacks sono stati i più forti di sempre, capaci di chiudere il ciclo con un altro titolo iridato (nel 2015), il terzo posto alla Coppa del Mondo 2019 e una media di successi del 90,7 per cento, frutto di 49 vittorie, 2 pareggi e 3 sole sconfitte nell’arco di sette anni.
Proprio alla fine dei Mondiali 2019, con la fine dell’avventura di Hansen e con l’addio alla nazionale di tanti senatori, tra cui il leggendario capitano, Kieran Read, la scelta per l’allenatore sembrava ovvia. Foster aveva vissuto da dentro l’avventura sportiva degli All Blacks, era stato il braccio destro di Hansen e sapeva come andare avanti nel solco di quegli insegnamenti. Poco da fare dunque per gli altri candidati, che all’epoca erano Jamie Joseph, che aveva compiuto l’impresa storica di portare ai quarti di finale del mondiale casalingo il Giappone e soprattutto Joe Schmidt, che aveva reso l’Irlanda una delle nazionali più belle da vedere e vincenti al mondo. La federazione neozelandese a quel punto scelse di operare in continuità.
La scelta non è stata delle migliori.
Gli All Blacks occupano oggi la quarta posizione nel ranking (nelle prime tre posizioni ci sono Francia, Irlanda e Sudafrica), hanno perso 7 delle 24 partite della gestione Foster, ne hanno pareggiata una (la prima tra l’altro, non l’esordio migliore) e quindi, conti alla mano, sono passati dal 90,7 al 66,6 per cento di vittorie. Una percentuale che farebbe impazzire di gioia qualunque allenatore (pensate che bello sarebbe avere un’Italia che vince due partite su tre), ma che dall’unicissimo punto di vista neozelandese rappresenta una catastrofe nazionale.
Al di là del dato numerico, il peggioramento più grande è quello prestazionale. Gli uomini di Foster oggi giocano male, sono distratti, perdono palloni, fanno fatica, difendono a stento. Sono il lontanissimo ricordo di quella che è stata la squadra che ha avvicinato al rugby milioni di persone nel mondo e che è raccontata benissimo nel documentario della serie All or Nothing, su Prime Video.
Oggi, a un mese dall’inizio del Championship, la competizione in cui partecipano Nuova Zelanda, Australia, Sudafrica e Argentina, che gli All Blacks dal 2012 hanno vinto 8 volte su 10, e a un anno dai Mondiali che vedranno i tre volte campioni del mondo nel girone con Uruguay, Namibia, Italia e con la padrona di casa, quella Francia che è anche la favorita per la vittoria finale, ci si interroga sul da farsi.
Il ceo della federazione, Mark Robinson, ha rilasciato un comunicato stampa in cui spiega che le valutazioni sono in corso e che comunque le decisioni andranno prese nei prossimi giorni, prima dell’inizio del Championship. I candidati alla successione sono due: c’è ancora Joe Schmidt, che è decisamente il più indicato per guidare una squadra che deve tornare a incantare per rapidità di gioco e varietà di giocate, ma c’è anche “Razor” Scott Robertson, che alla guida dei Crusaders ha vinto 5 Super Rugby (il campionato per club del Pacifico) consecutivi. La sua squadra gioca benissimo e ha in rosa l’ossatura più importante degli attuali All Blacks, tra cui spiccano il pilone Joe Moody, il tallonatore Codie Taylor, le seconde linee Scott Barrett e Sam Whitelock (quest’ultimo ha 117 presenze in nazionale), il mediano d’apertura Richie Mo’Unga, il centro Braydon Ennor, le ali George Bridge e Sevu Reece, l’estremo Will Jordan.
Certo, guidare una Nazionale è diverso, guidare questa Nazionale lo è ancora di più. Non è nemmeno escluso che si continui a dare fiducia al progetto per ora fallimentare di Ian Foster. Ma il tempo corre e, necessariamente, bisogna fare in modo che gli All Blacks tornino i soliti All Blacks.