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Questo Tour de France è la consacrazione del nuovo mondo del ciclismo

Giovanni Battistuzzi

Gli orizzonti inediti dell'ultima rivoluzione a pedali dovrebbero far mutare i metri di giuzio e paragone di quello che vediamo sulle strade

L’amore è ben più semplice dello sport, che uno lo capisce subito quando qualcosa sta cambiando, almeno all’inizio, quando il cuore pulsa di più e il cervello si avvita attorno a un pensiero fisso che è lei o lui e lui o lei soltanto. L’amore è a suo modo una rivoluzione. Un prima e un dopo, una cesura netta, talmente netta che è autoevidente. Poi tutto si incasina, perché subentrano migliaia e migliaia di variabili e, se non ci si sta attenti, si rischia di prestar più attenzioni a quelle infinitesimali che a quelle davvero importanti. Lo sport fa un po’ il verso all’amore, soprattutto il ciclismo, perché il ciclismo, come l’amore, ha a che fare  con migliaia e migliaia di variabili che si protraggono per un tempo ben più lungo dell’ora-ora e mezza che contraddistingue gli sport di squadra e prevede dei tempi morti, anche lunghi, che possono diventare infiniti, o tendere a zero, a seconda di quanto uno li sa accettare e sa trovare del bello in essi.

 

Nel ciclismo però, al contrario dell’amore, ci si accorge quasi mai quando qualche cambiamento radicale è apparso per la prima volta e il peso che questo ha avuto negli anni successivi.

 

Ci si accorge a rivoluzione avvenuta, della rivoluzione. Una rivoluzione che però viene valutata nel perimetro e coi termini di paragone e paradigmi di quello che c’era prima, perché un nuovo alfabeto e un nuovo lessico ci mettono sempre parecchio ad accantonare quello precedente, a meno che non si attui un golpe e si instauri una dittatura. Con esiti comunque quasi mai soddisfacenti. Il ciclismo è da anni che è entrato in un’epoca differente, differente almeno da quello che c’era prima di quel manipolo di corridori che hanno cambiato il modo di correre di molti, che hanno imposto l’estensione del dominio della lotta, l’allargamento degli orizzonti della sfida ciclistica e imposto la convinzione che è importante vincere, decisivo come sempre, ma che conta, e parecchio più di prima, anche come si vince, che quello che serve è soprattutto far battere il cuore, a se stessi al pubblico e, all’impazzata, agli avversari, perché pedalare per far la fine dei ragionieri, dei razionatori energetici equivale a non pedalare affatto.

 

E fa sorridere che a iniziare, nei fatti e non a parole, questa concatenazione di eventi che ha portato, in modo del tutto non preventivato, a uno dei Tour de France più belli che si sono visti negli ultimi decenni, quello che si concluderà domenica a Parigi, sia stato proprio colui che, dai più, è stato considerato come il distruttore del ciclismo dell’istinto e l’impositore, l’ultimo in ordine di tempo, di un ciclismo iper-razionale. Lo capiremo nei prossimi anni, quando si ritirerà, se non l’abbiamo già capito, che Chris Froome non era quel robot che è stato propagandato essere, che c’era in lui ben di più del mero esecutore di strategie di squadra. Perché in quell’esplorazione alpina al Giro d’Italia del 2018, iniziata sul Colle delle Finestre e terminata, solitaria e vincente, sul Monte Jafferau, per quanto studiata in bus e riprodotta in corsa, c’era in embrione il ciclismo che stiamo vedendo e ci stiamo gustando, goduriosi e lussuriosi. L’estensione del godimento, l’allungamento dell’azione sino quasi a farla coincidere con quella d’antan, è iniziata lì. Perché al contrario di Claudio Chiappucci, ultimo meraviglioso esemplare di un modo di intendere il ciclismo scomparso, in Froome c’era quello che c’è oggi: lo studio e la consapevolezza alla base della voglia di stravolgere tutto.

 

La dilatazione del tempo dello scontro, l’anticipo dello scatto che si è sovrapposto sino a sostituire l’attesa dello scatto, si è sempre più imposto come se non normalità, quanto meno come non stranezza. Capita nelle corse di un giorno e nelle grandi corse a tappe, soprattutto se a correrle ci sono quel manipolo di corridori che hanno deciso che questo, e non un altro, è il modo più appagante di correre.

 

Il ciclismo è mutato, sta mutando, continuerà probabilmente a farlo. Eppure sopravvive, come quei giapponesi nelle foreste che ancora credevano che la guerra, la Seconda Guerra mondiale, si stesse combattendo ancora nonostante fosse finita anni prima, un sistema di valori e di credenze che fa fatica a scalfirsi, a fare i conti con il nuovo, con la rivoluzione avvenuta e portata, più o meno, a compimento. Ed è un perimetro di raziocinio energetico, di necessità dell’attesa, di comportamenti da piccolo ragioniere, di antiche regole non scritte che parlano di spartizione di favori e rispetti, che sono più cosa da ligéra che da biciclette. Perché è vero che Tadej Pogacar si è preso una cotta sul Col du Grandon, ma non per gli scatti e gli  sprint dei giorni prima, bensì perché ha voluto, quel giorno, restare il centro focale del Tour mentre Primoz Roglic e Jonas Vingegaard lo attaccavano. Si può mica raccontare le loro gesta, spiegare la loro magia, con una guida che loro stessi hanno reso obsoleta: frega niente a loro risparmiarsi, non hanno paura di perdere, hanno paura di annoiarsi.

 

Il ciclismo è avanti, come sempre, rispetto al mondo che si muove attorno al ciclismo, che lo guarda, commenta, indipendentemente che questo parlare sia su giornali, siti, social o osterie. Di tutto questo se ne fregano i Wout van Aert, i Mathieu van der Poel, i Pogacar, i Julian Alaphilippe, i Vingegaard, i Roglic (quando resta in piedi), i Remco Evenepoel e tutti quei giovani che prima o poi, perché accadrà, metteranno i piedi in testa a questa banda di ragazzacci che se ne è fregato, se ne frega, del modo “normale” di correre, del “comportamento corretto” da tenere. È tornato il sentimento, la voglia di correre e di rischiare.

 

Questo Tour de France è stato il manifesto, per ora il migliore – per ora – di questa mutazione che potrebbe durare a lungo e imporre un nuovo linguaggio, un nuovo perimetro di valutazione, oppure sparire, chissà, non appena la rivoluzione diventerà regime. È dura però che un regime si possa instaurare davvero, perché in questo volere tutto e voler tutto a proprio modo, va a finire che lì dove i genitori non hanno paura di lasciare pedalare i loro figli – siamo sicuri che la situazione nella quale versa il nostro ciclismo non abbia a che fare con la guerra (in)civile che si sta combattendo sulle nostre strade? – cresceranno giovani talmente innamorati dallo spettacolo di queste corse, e non solo di questo Tour, che faranno di tutto, per spirito di emulazione, per battere i propri miti e con gli stessi mezzi dei propri miti, in quell’estensione del dominio della lotta che ormai è diventato patrimonio comune di questo ciclismo.