(foto LaPresse)

(1955-2022)

Claudio Garella era molto di più che "il più forte portiere del mondo senza mani"

Giuseppe Pastore

Umano, imperfetto, ben lontano dall'astratta essenzialità mitteleuropea degli estremi difensori metropolitani. A Verona e Napoli ha vinto lo scudetto: lunedì le due squadre gli tributeranno l'ultimo applauso

I soprannomi migliori, di solito invenzioni giornalistiche che approdano sul foglio o nel microfono improvvise e fulminanti, sono quelli che riescono a catturare lo spirito del tempo nello spazio di tre sillabe. E dunque Ga-rel-lik: non proprio seducente come la Lo-li-ta di Nabokov, eppure perfettamente calato nella realtà e nell'immaginazione di milioni di giovani italiani incastonati negli anni Ottanta. Un esempio ideale di quella che Baudelaire avrebbe chiamato “la sindrome dell'età dell'oro”, la nostalgia di epoche mai vissute o quantomeno mal ricordate, che poi è quella che ancora oggi ci fa sospirare davanti ai frammenti delle Domeniche Sportive anni Ottanta, i Techetecheté della nostra infanzia di calcio-maniaci. E dunque Garellik: soprannome clamorosamente pop, mutuato da “Dorellik”, casereccio supereroe-parodia di Diabolik interpretato da Johnny Dorelli negli anni Sessanta, preso in prestito forse da un giornalista de “L'Arena” e portato alla ribalta nazionale da Gian Piero Galeazzi nel dopo-partita di un Roma-Verona in cui Garella aveva parato anche le mosche, chiudendo la porta in faccia otto nove dieci volte a Falcao, Pruzzo, Cerezo eccetera. Nickname che, per ragioni d'assonanza, in tempi recenti qualcuno ha provato ad appioppare fuori tempo massimo a Nicolò Barella (“Barellik” secondo qualche titolo poco convinto della Gazzetta), sempre per colpa di quella maledetta nostalgia che miete vittime ogni estate. Invece no: quel soprannome calzava a pennello sulla generosa figura di Claudio Garella, il portiere a molla, una specie di Gérard Depardieu coi guantoni, goffo, sgraziato, fuori forma anche per i tempi laschi degli anni Ottanta.

 

Oggi i telecronisti poco originali sollevano i sopraccigli quando un portiere respinge un tiro di piede - “un intervento da calcetto!” - e le estremità inferiori servono più a far partire la manovra che a parare, come ci spiegano con toni tra il pensoso e il savonarolesco quasi tutti gli allenatori del mondo civilizzato, con pochissime eccezioni che di recente hanno alzato la Coppa dei Campioni. E dunque, per reazione, quasi tutti gli articoli di queste ore celebreranno Garella come “il più forte portiere del mondo senza mani”, che come tutte le definizioni dell'Avvocato Agnelli era una definizione esatta solo un po': lo testimoniano per esempio le immagini di quel famoso Roma-Verona del campionato 1984-85 che si sarebbe concluso con il leggendario scudetto dell'Hellas. Allora anche le squadre da scudetto non avevano vergogna ad andare in trasferta a San Siro o all'Olimpico e lì alzare solenni barricate per strappare il punticino, e nei pomeriggi più ispirati il Portiere si ergeva a figura sovrannaturale, Dea Kalì, mostro marino di Jules Verne, e stimolava la creatività di tutti i Galeazzi di questo mondo.

Più volte il suo corpaccione sbarrò la strada ai campioni del mondo 1982 (vedi uno Juventus-Verona 1985 in cui fu letteralmente ultimo baluardo con mani, piedi, stinchi, cosce, tutto) e da Maradona prese gol solo in allenamento, nelle infinite sessioni sui calci piazzati a Soccavo in cui gli toccava l'onore di ammirare il Genio al lavoro. Eppure in Nazionale non ci ha mai giocato, escluso da una concorrenza feroce in tempi in cui non era nemmeno pensabile che una squadra italiana ingaggiasse un “estremo difensore” straniero (nella serie A 2021-22 nessuna delle prime sei in classifica ha avuto un portiere titolare italiano). E anche perché era umano, imperfetto, fallibile, ben lontano dall'astratta essenzialità mitteleuropea dei portieri metropolitani.

 

Il suo stile particolare, destinato a passare tutt'altro che inosservato, stimolava i detrattori ad affondare il dito nella piaga a ogni sua disavventura, e in oltre 500 partite in carriera – come tutti i portieri – ne ebbe non poche: gli capitò purtroppo un posto in prima fila in una delle massime disfatte della storia della Lazio, una sconfitta in casa del Lens in cui Six non fu solo il cognome dell'attaccante dei francesi ma anche il numero dei gol subiti. Salutò a suo modo l'avvento del calcio sacchian-berlusconiano con un paperone su tiro da fuori area di Donadoni nella famosa Milan-Napoli 4-1 del 3 gennaio 1988. Ma nel lungo periodo era molto più affidabile che pittoresco, nonché una persona buona, generosa, affabile, istintivamente simpatica ai bambini. In Verona-Torino 1985, scontro diretto dell'anno dello scudetto, Aldo Serena gli fece gol con una spettacolare rovesciata: la palla non si era ancora posata per terra che già Garella, vistosi battuto, gli stava battendo le mani in segno di ammirazione. Bambino nella grigissima Torino degli anni Sessanta, granata osservante, cresciuto nel mito del Giaguaro Castellini, marito già a 19 anni (“Laura mi chiese se le aggiustavo la bici. Non sono stato capace, però ci siamo sposati”): negli anni di Napoli condusse insieme a lei una trasmissione su Telelibera 63 il cui titolo - “Il buco nella rete” - la diceva lunga sulla sua spiccata autoironia.

Le qualità tecniche e umane gli consentirono di risiedere a buon diritto in due spogliatoi campioni d'Italia: a Verona nel 1985, a Napoli nel 1987, là dove non si era ancora mai vinto uno scudetto. Claudio Garella è uno dei soli due calciatori ad aver vinto due campionati con due squadre diverse fuori dal triangolo Torino-Milano-Roma: l'altro è Eraldo Mancin, terzino sinistro di Fiorentina (1968-69) e Cagliari (1969-70). Il Grande Sceneggiatore ce lo ha portato via alla vigilia di una prima giornata che a Ferragosto prevede proprio Verona-Napoli: due tifoserie separate da un odio atavico che alle 18:30 di lunedì pomeriggio si ritroveranno unite in un lungo e commosso applauso. Il suo ultimo miracolo.

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