Marcell Jacobs e quella festa quasi senza sorrisi
Monaco non è Tokyo, e anche l’atletica è diventata showbitz. L'oro agli europei del velocista italiano e quello che rimane della vittoria in pista
Un anno fa, il primo agosto 2021, che si fosse a Tokyo o qui in Italia o ovunque nel mondo fu lo stesso: si poteva credere davvero ai propri occhi. Perché gli occhi italiani non erano esattamente abituati a vedere un uomo in canottiera azzurra davanti a tutti nei cento metri, per di più soltanto pochi minuti dopo che un altro uomo in canottiera azzurra aveva saltato più alto di tutti (ex equo con Barshim). Non ci si poteva credere, perché nemmeno nelle più belle sparate del matto del paese l’uomo più veloce al mondo e quello che saltava più in alto erano italiani. E invece Marcell Jacobs e Gianmarco Tamberi erano l’uomo più veloce al mondo e quello che saltava più in alto. E per di più alle Olimpiadi. Non poteva essere altro che una gioia assoluta, una di quelle libidini che si sa perfettamente che non ricapiteranno più. Non così almeno, non in un quarto d’ora.
Un anno fa era commozione, emozione spontanea loro e nostra. Ma un anno fa non è oggi. Anche perché Monaco non è Tokyo. C’era arrivato prima di tutti Akira Kurosawa. Ben prima dell’atletica, almeno. C’era arrivato quando commentò il fallimento del progetto di girare un film tra la Baviera e il Giappone. Se ne fece niente. “Monaco non è Tokyo”, disse. A star lì, in Baviera, gli si era contratta l’ispirazione e passò ad altro. Gli andò bene comunque: girò “Kagemusha”, staccò biglietti come mai aveva fatto, vinse parecchi premi.
Monaco non è Tokyo nemmeno per Marcell Jacobs, che a Tokyo vinse l’oro olimpico, e all’Olympiastadion della capitale bavarese quello europeo. Ma è stato quasi senza festa, senza sorridere, come se non fosse nient’altro che ciò che era obbligato a fare. La professione. L’atletica come shobitz e professione.
Certo non c’era Gimbo in pista ad abbracciarlo con il tricolore. Certo non erano le Olimpiadi, e si sa che le Olimpiadi, almeno nell’atletica, le guardano in tantissimi, soprattutto quei tantissimi che all’epoca non sapevano minimamente che l’Italia avesse un velocista così. (Quelli esperti invece lo sapevano, ma nessuno si azzardava a puntare più in alto). Certo c’era di mezzo un anno passato un po’ così, pieno di problemi fisici e di voglia di tornare a correre troppe volte abortita. Però è sembrato che non se la sia goduta Marcell Jacobs. I bicipiti li ha gonfiati in favore di telecamera, ma senza l’esplosione un po’ caciarona di allora. Come se non fosse il caso, come se la felicità fosse dominata da un’urgenza esterna alla pista, quella di dimostrare di essere “per evidenza” il più forte, quasi fosse questa l’unica cosa importante. Come si fosse imposto un ruolo da rispettare.
Anche le parole dette alla Rai erano diverse. Un anno fa era un “grazie” particolare, alla famiglia eccetera, divenuto universale, il grazie di chi è lì davanti alle telecamere ma vorrebbe essere altrove, a far festa. Divenuto l’altra sera un professionale “grazie a chi mi sta guardando e sta tifando per me”, un modo followeristico, una roba da influencer. Un pensiero alla medaglia e uno a chi garantisce il giro degli sponsor. E’ l’atletica che è cambiata, bellezza. Jacobs ci ha regalato metà della giornata più incredibile dello sport italiano, e si può permettere tutto. Anche di sostituire la gioia un po’ sguaiata, con il ruolo da predestinato da interpretare.
Il Foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA