Chi può permettersi Kevin Durant?
K.D. vuole andarsene da Brooklyn. Ma nessuno vuole pagarlo così tanto
È passato più di un mese ormai, e il cul-de-sac creato dalla richiesta di trade di Kevin Durant ancora non sembra vicino a una soluzione. O meglio, a una soluzione che accontenti il suo desiderio di lasciare i Brooklyn Nets. Era il 30 giugno scorso quando la stella ex Thunder e Warriors rendeva nota, con una comunicazione rivolta direttamente al proprietario della franchigia Joe Tsai, la volontà di cambiare aria. Invitando il front office a esplorare il mercato alla ricerca di uno scambio, e suggerendo due destinazioni gradite: Phoenix e Miami. In un secondo incontro con l’owner dei Nets, poi, KD ha esplicitato le proprie motivazioni, ovvero la sfiducia nello staff tecnico e dirigenziale di Brooklyn. Lo ha fatto con un aut aut, come ha riportato Shams Charania (The Athletic): “O me, o Steve Nash e Sean Marks” (l’allenatore e il general manager). Quest’ultimo nell’ultimo mese e mezzo ha intrattenuto conversazioni con i dirigenti di tutta la Lega o quasi, scontrandosi con la difficoltà – l’impossibilità? – di muovere un contratto come quello di Durant. Difficoltà che è diretta conseguenza dell’elevatissimo valore di mercato del giocatore, uno dei talenti più puri dell’Nba (nonostante i 33 anni di età) con ancora quattro stagioni previste dal suo contratto da 193 milioni di dollari.
Alla luce di tutto questo le pretese dei Nets sono, legittimamente, stellari. Probabilmente senza precedenti nella storia dell’Nba. Basti pensare che quando hanno bussato alla porta i Timberwolves, Marks ha risposto chiedendo un pacchetto esorbitante: Karl-Anthony Towns, Anthony Edwards e quattro prime scelte al Draft, secondo quanto riferito dall’insider Jon Krawczynski. E così, di fronte a un prezzo tanto elevato, tutte le franchigie in corsa per KD sembrano essersi scoraggiate, e il mercato raffreddato. Suns e Heat difficilmente possono comporre un’offerta soddisfacente per i Nets, mentre le tre squadre che ne avrebbero le maggiori possibilità in termini di asset disponibili – Raptors, Celtics e Warriors – appaiono riluttanti a mettere sul piatto una grossa fetta del proprio futuro (giovani, scelte al Draft).
Insomma, dopo un mese e mezzo – e un’infinità di indiscrezioni - di mercato Nba, l’addio di Durant al Barclays Center sembra tutt’altro che imminente. E l’inizio del training camp dei Nets, a fine settembre, assomiglia sempre di più a una deadline per la fattibilità dell’operazione. Il problema è che, come ha raccontato Brian Windhorst (Espn), “il prezzo è talmente alto che nessuno può permettersi di pagarlo; perché se fai uno scambio con cui indebolisci molto la tua squadra, allora il motivo per cui stai acquisendo Durant viene meno”.
In assenza di un sensibile calo nelle richieste di Brooklyn, l’impasse è dunque destinata a non risolversi, e l’Mvp 2014 a iniziare un’altra annata sulle rive dell’Hudson. In un team, quello di coach Nash, che intanto prepara i ritorni di Ben Simmons e Joe Harris, che ha confermato Patty Mills, Nic Claxton e Kessler Edwards, e che ha messo sotto contratto Royce O’Neale, TJ Warren ed Edmond Sumner. Le premesse per la stagione dei Nets sarebbero tutt’altro che pessime, ma finché Durant sarà in aria di trade, ogni considerazione sulle loro chances di competere per il titolo rimane in stand-by. Allargando la prospettiva, chi scruta con preoccupazione e disapprovazione la faccenda è l’intera Nba. Dai vertici della Lega ai proprietari delle franchigie, che – impotenti di fronte ai “ricatti” di giocatori e agenzie di rappresentanza – ormai da anni osservano le conseguenze del player empowerment. Ossia, della crescente capacità delle stelle Nba di controllare il proprio futuro; e non con la firma di contratti di breve durata, ma attraverso richieste di trade alle franchigie con cui si erano precedentemente impegnate. Pressioni a cui i dirigenti difficilmente possono sottrarsi, un po’ per le problematiche (di varia natura) che crea una superstar scontenta in squadra, un po’ perché nel mondo Nba incrinare i rapporti con agenti e giocatori rischia di avere un effetto-domino poco desiderabile sul lungo termine.
Quello di Durant, per le proporzioni dell’affare, è il più clamoroso braccio di ferro tra una superstar e la propria franchigia, e forse proprio per questo è destinato a concludersi (insolitamente) in un nulla di fatto. Ma non è certo il primo, come ricordano le trade forzate nelle recenti sessioni di mercato da James Harden, Ben Simmons, Jimmy Butler e Kawhi Leonard. Una lista a cui Adam Silver, numero uno dell’Nba, non ha nascosto di voler dare un taglio, in occasione della conferenza stampa a seguito del Board of Governors. “Dobbiamo trovare dei rimedi”, ha detto il commissioner. “Non ci piace vedere giocatori che chiedono di essere scambiati, non ci piace come stanno andando le cose. È una di quelle questioni che, avvicinandoci alle trattative per il nuovo contratto collettivo, intendiamo discutere con l’associazione giocatori.”
Sullo sfondo, infatti, c’è il delicato tema delle negoziazioni per il nuovo Collective Bargaining Agreement. Come la storia dell’Nba insegna, in caso di mancato accordo si potrebbe assistere addirittura a un lockout, e sono proprio la questione-Durant e il discorso poco velatamente accennato da Silver, secondo Brian Lewis (New York Post), che potrebbero creare una certa distanza e dei pericolosi attriti tra le parti. E così, in stallo non c’è solo la stagione 2022/23 dei Brooklyn Nets, ma anche quella dell’intera Nba.